giovedì, luglio 12, 2007

Per la riforma del sindacato

Sindacato e alternanza politica
di Ettore Combattente


Esiste una spinta oggettiva alla semplificazione della complessità. E’ un processo che coinvolge istituzioni sistema politico e rappresentanza sociale.
Nasce dalla crescente consapevolezza della necessità che il Paese esca da una lunga fase di transizione e che il sistema dell’alternanza politica pervenga ad una compiuta definizione.
E’ un processo necessario, indispensabile. E nel quale ogni soggetto deve fare la sua parte, nella consapevolezza che la parte di ognuno cambia.
Mi soffermo sul ruolo del sindacato nel sistema di alternanza nel governo del Paese.

Il sindacato “tutela (sempre più) interessi particolari” , ha ragione D’Alema,.
In una società complessa non può che essere così. Non condivido l’implicito giudizio di valore espresso da D’Alema “Anche il sindacato perde slancio”.
Lo slancio del sindacato negli anni passati derivava dalla non indifferenza, un eufemismo per non dire schierato, rispetto al quadro politico, pur nell’affermazione della autonomia. Era confederalità, sindacato generale, era “costruire soluzioni, elaborare proposte, creare processi reali di solidarietà” come giustamente rilevava Michele Magno in una sua interessante riflessione su “Il Riformista “ di mercoledì 23 maggio scorso, e aggiungeva, era “il cuore di quel patto tra i produttori di cui nessuno parla più”. Era la funzione svolta dal sindacato nel secolo scorso in Europa, dentro il compromesso Keymesiano-socialdemocratico, venuto in crisi con le modificazioni dell’economia mondiale e della produzione.
Era in Italia un sindacato che, nell’ultimo scorcio del secolo scorso, rispetto alla crisi della versione italiana, impropria, del patto sociale europeo, capitalismo di stato e assistenzialismo del potere politico, ha voluto svolgere “un ruolo di supplenza” della politica ( patto per il risanamento, lo sviluppo e la politica dei redditi).
Una risposta alla crisi del sistema politico, detta della I Repubblica, in realtà risalente agli anni antecedenti tangentopoli, quando alla politica e al sindacato sfuggivano le trasformazioni in atto nell’economia mondiale e nella produzione, e quando in altri paesi avanzati si avviavano politiche nuove, con una consapevolezza crescente della crisi del vecchio patto sociale.
Può il sindacato italiano oggi ritornare a quel ruolo, che era complementare ad una insufficienza di tutta la classe dirigente o, invece, spinto inevitabilmente dalla complessità dei conflitti, non può che tutelare e rappresentare gli interessi sempre più particolari dei lavoratori ? Guardiamo ai processi reali in corso nell’economia globalizzata, nel lavoro e nel sapere, e in Italia ai processi di crisi e ai tentativi in atto di riforma del sistema politico e istituzionale, teniamo presente l’ Unione europea dove si pone il problema di un rinnovato ruolo del sindacato e del dialogo sociale.
Domandiamoci se oggi si può conciliare l’autonomia della rappresentanza sociale e la non indifferenza sugli sviluppi politici del Paese?
Cosa accade in Europa dove prevale l’alternanza politica? Qual è la natura del rapporto del sindacato europeo con la Commissione U.E:?
La domanda è se non debba essere di indifferenza la posizione del sindacato rispetto al quadro politico di governo. Salvo i casi in cui si dovessero aprire questioni di difesa della democrazia.
Indifferenza non significa la rinuncia a valori, come diritti e solidarietà.
A me pare che il sistema dell’alternanza politica richieda un sindacato che si ponga in una posizione pregiudiziale di neutralità rispetto ai governi che volta per volta si affermano e si avvicendano e che rappresentano punti di vista diversi, espressioni della maggioranza democratica del paese. Pregiudiziale neutralità vuol significare autonomia critica e capacità di distinzione.
Il sistema dell’alternanza richiede un sindacato che non si riconosca in un qualsiasi modello di società, se non nella democrazia, per la quale è decisivo l’adesione di tutte le parti in contesa, istituzionali e sociali, al metodo del dialogo sociale, del confronto, del riconoscimento reciproco, del pluralismo sociale e della sua rappresentanza.
Una visione laica dei rapporti tra politica istituzione e società.
Mi pare una traslazione possibile e non arbitraria di quanto con originalità sta sostenendo Riccardo Terzi nei suoi scritti sulla rivista “Gli argomenti umani” sul relativismo e sui rapporti tra religione e politica.
L’indifferenza indubbiamente ridimensiona la centralità del rapporto sindacato poteri pubblici svolto dalle confederazioni. Mentre rende necessario fare risaltare in modo preminente la funzione originaria del sindacato, essere rappresentanza sociale del lavoro. In un mondo attuale in forte movimento, di cambiamenti veloci. Il lavoro è cambiato e cambierà. Dalla centralità della macchina alla centralità dell’uomo come parte della rete del sapere tecnologico e non solo.
Un nuovo potere sindacale capace di interagire con le trasformazione della produzione e dell’economia non nel rifiuto delle novità ma di apertura verso le innovazioni di processo per rappresentare la funzione nuova che nell’ambito delle forze produttive esercita il lavoratore con la conoscenza e il sapere. Ripercorrere la “Strada del lavoro”, il titolo di un bel libro di memorie e storie sindacali di Carlo Ghezzi, per incontrare i nuovi lavori con il loro bisogno di rappresentanza e di riconoscimento, ma che sono dotati più del lavoro fordista di un potenziale individuale di affermazione e di valore.
Un sindacato che faccia una scelta dinamica di politica salariale, che punti ad alzare il livello dei salari partendo dalle realtà di alta produttività che un modello contrattuale nazionale non riesce a ridistribuire. Una strategia che può incidere sulla ingiusta e sperequata distribuzione del reddito tra lavoro e varie posizioni di rendita, vecchie e nuove, di cui il nostro Paese mantiene un primato di ingiustizia.
Una difesa dei lavoratori dinamica capace di esercitare una rappresentanza complessa e articolata degli interessi, capace di una gestione democratica del conflitto con le controparti naturali del sindacato per il riconoscimento di funzioni e di diritti nuovi del lavoro. Chiamando la politica ad assumersi la responsabilità di fare proprie scelte sul merito dei conflitti sindacali e delle istanze di riconoscimento sociale di nuovi diritti, che emergono dalle lotte e dai risultati conquistati attraverso il potere contrattuale.

Qual è il rapporto tra conflitti sociali, rappresentanza degli interessi e conflitti politici nella società liquida (Z.Baumann) o dell’incertezza (S. Veca)?
Gli interessi si contrappongono non più in modo lineare come nel fordismo ma in maniera plurima e pluridimensionale, dall’organizzazione del lavoro a quella dei tempi di vita, e la centralità della contraddizione cambia volta per volta.
Ricardo Terzi sviluppando il suo pensiero sull’autonomia dei corpi sociali, ha colto nel pensiero di Tronti, di cui ha recensito una recente pubblicazione di raccolta di scritti, un interessante e attuale spunto sull’autonomia del conflitto, in riferimento al movimento operaio nei tempi del fordismo.
Rispetto a una inedita complessità e incertezza della società post fordista, o meglio post-moderna, dell’informazione e della competitività globale, se i ruoli si confondono, il sindacato soggetto politico, i partiti nomenclatura sociale, i governi espressione d’interessi in conflitto, ne deriva la paralisi totale delle decisioni e un pasticcio politico sociale grande e incontenibile. La politica, come dice Reichlin, ridotta ad “ancella dell’economia dalla globalizzazione”, si ritrova a livello del nostro Paese a guinzaglio degli interessi in conflitto.

A ciascuno il suo mestiere. Come disse Sergio Cofferati nel titolo del suo libro, che preannunciò, allora, una possibile riforma del sindacato, della CGIL, che preparasse l’uscita dalle emergenze del sistema Italia. Disegno di riforma che si arenò nelle secche della vicenda sindacale del 2001/2002, originata da un attacco delle politiche liberiste del centro destra e di divisione sindacale.
Nel momento in cui la politica prova a fare la sua riforma, ritorna attuale un disegno di riforma del sindacato: un progetto di riforma di tipo europeo, riforma dell’organizzazione, delle sue regole, della configurazione degli assetti delle categorie e dei loro poteri contrattuali, della rappresentanza, del modello contrattuale ecc.
A ciascuno il suo mestiere per fare tornare la politica a fare il suo mestiere, senza possibili alibi, a fare scelte e a fare sintesi sulla base di un progetto di riforme, di un programma di cui i partiti sono responsabili verso gli elettori e verso il Paese; una politica che non dipenda giorno per giorno dalla rappresentanza degli interessi in conflitto all’interno dello stesso governo. L’autonomia della politica. Che non significa che la politica parli a se stessa, come avviene oggi. La politica deve parlare alle persone reali, ai loro sentimenti e alle loro passioni; la politica e i partiti devono avere i piedi e la testa nella realtà, nelle contraddizione reali della gente per la quale devono governare, i partiti devono tornare nel territorio, laddove c’è un campanile, il che non significa confondersi con quelle passioni e con quei conflitti, ma costruire giorno per giorno il futuro. Non sola governabilità ma governo.
La funzione generale deve tornare alla politica. Questo lo dico esplicitamente a chi nella CGIL si culla ancora nell’idea che siamo tutti centrali per la politica. La vulgata “ tutto è politica”.
Non si tratta di stabilire una gerarchia, ognuno è centrale per il suo ruolo. La politica è centrale per definire i destini del Paese. I partiti ne sono i soggetti. Come il sindacato è il soggetto della rappresentanza degli interessi e opera per il presente. In questo ruolo particolare riemerge una sua complementare funzione politica ma dal significato diverso.
Anche per la Confindustria vale il richiamo al proprio mestiere di rappresentanza sindacale.

Per un governo democratico e riformista il conflitto non è né un fine né un mezzo. Un governo riformista ha come fine il benessere generale della società, la promozione umana, lo sviluppo economico, i diritti e la giustizia sociale e ha come scelta di metodo la cooperazione, attraverso cui realizzare la mediazione degli interessi reali in conflitto. Questa fa la differenza con un governo populista di destra. Questa è la scelta del Partito Democratico su cui il sindacato dovrà confrontarsi.
Un governo riformista non sceglie quale soggetto sociale privilegiare. Tutte le componenti sociali sono importanti per realizzare sviluppo, benessere e diritti.
Il valore centrale è il cooperare e il cooperare è il fare, l’agire collettivo e sociale, il sapere competente, gli apporti individuali, nella scienza, nella ricerca, nell’arte, nel rischio e nell’inventiva dell’impresa, nel lavoro.
Se la contemporaneità è segnata dall’immissione dell’ intelligenza nei processi di sviluppo, grazie alla scienza e alla tecnica, è l’uomo che torna ad essere centrale. L’uomo come cittadino, come persona, come individuo. Nella sua complessità di diritti e di doveri.
Il cooperare mette insieme queste figure e smentisce tutte le parzialità che si vogliono affermare come centrali.

La centralità del valore del lavoro è del sindacato, non può essere della politica anche se progressista. Anzi quanto più è progressista tanto più deve includere nei valori fondanti forme di apporti e di competenze indispensabili allo sviluppo, in un concetto allargato di lavoro, di cui l’art 1 della Costituzione. Ci mancherebbe altro che non fosse così per il sindacato, anche se a volte sembrano avere centralità le politiche assistenzialistiche e le tutele pubbliche rispetto alla promozione, il giusto riconoscimento del lavoro produttivo o quando si inventa una centralità del lavoro pubblico, quasi un nuova classe generale portatrice di un valore del lavoro in un accezione, non di lavoro astratto, ma tecnico proprio di una corporazione.
Come è altresì una pretesa totalitarista quella che la Confindustria avanza di un idea di centralità dell’impresa come valore assoluto al quale dovrebbe piegarsi la politica. Insostenibile anche rispetto alla funzione che le relazioni industriali svolgono rispetto ai processi di sviluppo e d’innovazione.

Il sindacato deve essere principalmente soggetto contrattuale della forza lavoro, salario, organizzazione del lavoro, sicurezza, professionalità, formazione, ambiente ecc, nelle forme e nei modi in cui oggi si manifesta il lavoro, in quelle tradizionali del residuo fordismo e nelle sue molteplici forme nuove non classificabili , secondo gli standard tradizionali, come lavoro dipendente, pur rientrando in una rete al cui centro c’è un’azienda, e in cui è preminente lo specifico professionale individuale, un diverso peso del sapere, e forme di autonomie organizzative e di produttività.
Se il sindacato intende rappresentare l’unità del mondo del lavoro deve riconoscere ai soggetti dei nuovi lavori prevalentemente costituiti da giovani, fortemente scolarizzati, il diritto di darsi un’organizzazione che colga le peculiarità derivanti dalle competenze, dalla flessibilità e dalla precarietà, e che punti a tutele specifiche.
Lavoratori atipici che svolgono funzioni esternalizzate dalle aziende e i cui interessi confliggono non solo con il committente ma anche con l’azienda tout court comprensiva di tutte le figure insider.
Questo implica per il sindacato superare una condizione di separatezza con la realtà di tanti luoghi di lavoro, con la fabbrica diffusa sul territorio. Il sindacato deve affrontare le singole situazioni e problematiche secondo le loro specifiche cause e le specifiche controparti private evitando di confondere il ruolo, infrastrutturale e di regolatore, dell’intervento pubblico con quello di soccorritore assistenziale di ultima istanza delle insufficienze di produttività e di competitività delle imprese.
Un sindacato che rinnovi una democrazia sindacale che pencola tra assemblearismo ed elettoralismo.
La responsabilità delle rappresentanze sociali sta nella scelta del metodo democratico delle forme di manifestazioni del conflitto, che non riguardano solo il conflitto con il capitale per la molteplicità degli interessi in campo. Anzi in una economia globale i momenti di cooperazione lavoro e capitale sono sempre più spesso necessari e possibili: le forme di democrazia economica presenti in Europa e dalle quali il sindacato italiano non può ritrarsi inorridito per un ripudio ideologico alla collaborazione di classe.

Il sindacato deve attivare la sua riforma democratica per non rischiare di essere trascinato in forme violente di manifestazioni del conflitto, che nei servizi in particolare colpiscono i cittadini, attivando reazioni autoritarie.
La partecipazione del lavoratore deve trovare forma non solo nei momenti referendari ma in un confronto continuo, anche pubblico di rapporto con la democrazia del territorio; una partecipazione informata, consapevole della complessità della realtà e delle soluzioni possibili dei problemi. Andrebbero introdotte, come avviene negli Stati Uniti da parte di associazioni culturali, sociali e istituzionali di base, forme nuove secondo la ipotesi della democrazia deliberativa che presuppone e organizza una partecipazione, “ informata ; bilanciata; consapevole; sostanziale; comprensiva”.(Luskin).

Il confitto esiste in natura, dice Bersani, ma l’organizzazione deve tendere a governare il conflitto non di usarlo a prescindere. (etica della responsabilità)
E’ nell’esercizio di questa responsabilità che si stabiliscono oggettive distinzioni nel modo di rappresentare interessi e conflitti. Un merito a cui dovrebbero attenersi i critici del sindacato i quali confondono sindacato e organizzazioni ribellistiche movimentiste, localistiche e pregiudizialmente corporative e/o antagonistiche sul piano politico e sociale. E’ l’etica della responsabilità, la sua cultura, a livello delle singole persone e delle organizzazioni sociali che mette al riparo dalla degenerazione particolaristica e corporativa. E afferma il valore della confederalità in modo nuovo.
Lo specifico della rappresentanza del sindacato è il contrattare. Contrattare per conseguire risultati attraverso un metodo pragmatico che metta in rapporto possibili obiettivi e forme di lotte. Pragmatico significa valutazione del possibile ed esso nasce dalla considerazione di tutti gli aspetti economici che intervengono nell’affermazione dei diritti e del valore del lavoro. Significa partire dalla conoscenza dei fatti, per poi provare ad applicare ad essi le idee possibili e condivise. Considerazioni che non vanno intese come un straripamento nella funzione politica, essa è una competenza, un sapere, indispensabile per il mestiere del sindacato per capire in quale direzione si sviluppano gli interessi dei lavoratori in rapporto ai fatti e alle possibili soluzioni di merito dei problemi. Compito che si esercita nella differenza e nel confronto dei ruoli dei vari soggetti in campo.
Un sindacato che ritorna ad avere funzioni di “sindacato” , di controllo e di verifica nei luoghi di lavoro su organizzazione del lavoro, ambiente, sicurezza, formazione, e sul territorio, dove fenomeni gravi, quali il lavoro nero e le morti bianche, richiedono un controllo esteso e partecipato delle forze sociali e delle istituzioni. Un sindacato che controlla e verifica, insieme ad altre organizzazioni sociali, gli effetti delle politiche pubbliche e degli atti delle Pubbliche Amministrazioni e dell’efficienza della stessa sulla vita delle persone, sui diritti dei lavoratori e dei cittadini per il rispetto e per la tutela dei diritti civili e di cittadinanza, a partire dalla Sanità e dalla sicurezza pubblica

Un apporto decisivo in questa funzione può venire dalla ramificazione organizzativa di base dei sindacati pensionati delle confederazioni e dallo loro pratica di contrattazione territoriale sugli aspetti più particolari della condizione anziana.
I sindacati dei pensionati, un successo della sindacalizzazione delle confederazioni sindacali italiane, unico in Europa.
I pensionati iscritti rappresentano circa la metà degli organizzati delle Confederazioni. Un successo degli ultimi venticinque anni cha ha visto una crescita impetuosa di questo nuovo soggetto sociale, capace di intervenire nelle diverse realtà a tutela dei diritti degli anziani sia attraverso i servizi sindacali di tutela individuali sia nel rapporto con i governi locali per i servizi sociali, ma esso è anche il segno di un limite e di una insufficienza della sindacalizzazione dei lavoratori attivi nel nostro paese.
I sindacati pensionati rappresentano milioni di ex lavoratori, un mondo variegato di anziani.
Diversi nelle condizioni fisiche, dal pieno vigore delle facoltà fisiche e mentali e della voglia di vivere, bisognosi di riconoscimento di dignità, agenti morali, chiamati da S.Veca, ai più deboli, non autosufficienti, sempre più numerosi negli anni terminali di una vita la cui speranza si allunga, bisognosi urgenti di cura, pazienti morali, sempre nella definizione di S.Veca.
Diversi nelle condizioni patrimoniali e di reddito, ma con una maggioranza, prevalentemente donne e Mezzogiorno, che vivono al limite della linea di povertà verso cui la progressiva perdita di valore delle pensioni spinge continuamente fasce di persone.
Una grande questione sociale di una società che invecchia che solo l’indifferenza culturale generale può avere fatto pensare che fosse una questione sindacale.
Il sindacato pensionati ha captato un potenziale ma reale conflitto interegenerazionale, che se non è scoppiato è grazie alla cultura solidaristica delle confederazioni e al fatto che il reddito dei pensionati è un ammortizzatore dentro la famiglia italiana, dove i giovani e le donne tardano ad entrare nel mercato del lavoro.
Ma fino a quando? Il sistema a ripartizione non regge per l’allungamento continuo della speranza di vita e per il ridursi della base occupazionale, causa la bassa natalità e la tecnologia. Giusta la riforma Dini, sulla pensione complementare e sui meccanismi di relazione tra età pensionabile e speranza di vita.
La categoria dei pensionati è anomala. Non ha potere contrattuale. Un potere con la controparte pubblica sottratto alla categoria dalle Confederazioni o concessagli per delega.
Contrattare è scambiare. Cosa può scambiare il sindacato pensionati con il pubblico per politiche di sostegno e assistenza? Sottinteso è il consenso elettorale. Un terreno sensibile per qualsiasi governo. Ma se per l’autonomia del sindacato questo non è, cos’è? Rimane il richiamo alla solidarietà. L’immagine di una categoria tutta fascia debole, una non - risorsa.
Senza una presa in carico in modo responsabile da parte delle classi dirigenti della questione anziani, nei suoi risvolti assistenziali e di cooperazione sociale, si alimenta tra gli anziani solo malessere, sfiducia nelle proprie risorse e distacco dalla democrazia.
Il futuro della categoria può essere sempre più in una forma associativa che concretamente opera per affermare e valorizzare la risorsa degli anziani, attraverso le forme flessibili di allungamento dell’età di lavoro, contrattandone e organizzandone il lavoro civico e la cittadinanza attiva. Questa è nel futuro la possibile riserva contrattuale per una periodica rivalutazione delle pensioni (del reddito).

Io penso che nella situazione del mondo globalizzato e della competitività del sistema paese, in un sistema politico bipolare, il sindacato debba essere sempre più autonomo e sempre più indipendente; un concetto quella dell’indipendenza teorizzato dal defunto leader della FIOM Claudio Sabatini in netta polemica e contrapposizione con le politiche dei partiti della sinistra e per una indipendente soggettività politica del lavoro.
Un tema quest’ultimo ricorrente negli anni recenti nel dibattito della sinistra riferito, in particolare, alla questione della rappresentanza politica del lavoro, tra ipotesi della CGIL come incubatore di un nuovo soggetto politico del lavoro a quella della lobby sindacale trasversale nella diaspora della sinistra.
La prima ipotesi,che ha prodotto solo confusione negli anni recenti, è velleitaria e antistorica, se si considerano le origini del movimento operaio italiano e il suo sviluppo lungo il novecento e se si considerano le differenze del socialismo europeo nelle sue origini, nella sua unità politica e negli sviluppi più recenti nella ricerca di una terza via.
La seconda sarebbe, per la sinistra, una cinghia di trasmissione alla rovescia, che per riflesso determinerebbe e coinvolgerebbe altre confederazioni verso il centro e la destra.
Diverso è il discorso, richiamato pure nei documenti della CGIL, sulla militanza politica del sindacalista, in quanto individuo e cittadino. Un ritorno all’interesse politico. Un porre fine ad un sentimento diffuso nel sindacato di antipartitismo, una dissociazione moralistica, secondo la categoria della diversità, in una classe dirigente della sinistra, che se esiste, non può che essere una.
Militanza significa anche possibilità di mobilità dalle funzioni di sindacalista a quelle di dirigente politico e di rappresentanza istituzionale. Avviene in tutti i paesi avanzati con forti sistemi politici e di rappresentanza. Ma la mobilità deve essere il risultato di una opzione democratica non di una cooptazione o di un patto elettorale tra politici e lobby sindacale. E la selezione non può essere che quella del voto dei cittadini perché il politico non rappresenta un ceto, ma un progetto politico di rappresentanza del cittadino. Al quale ogni cittadino può e deve dare il suo originale contributo, a partire dai lavoratori, la cui militanza politica si è notevolmente ridotta.
Sindacato autonomo e indipendente significa oggi non il configurarsi come organizzazione politica alternativa di un modello sociale, ma significa tenere ferma la funzione di soggetto contrattuale pragmatico e non ideologico.
Un sindacato consapevole di essere una parte e non il tutto, con modestia e senza deliri di onnipotenza.
Un’operazione di laicizzazione del sindacato. Che tolga via quel residuo di organicità delle organizzazioni sociali al quadro politico che insospettisce gli attori politici e l’elettorato e non aiuta la riforma della politica.
Sindacato non come soggetto politico, quindi, (quale sindacato in Europa si dichiara soggetto politico?), non spetta al sindacato presentarsi con un progetto politico, di modello sociale.
Un sindacato che si confronta con il Governo non partendo da premesse e modelli propri ma sul merito del progetto del governo con un pragmatismo non approssimato, illuminato da competenze e da senso di responsabilità. Un pragmatismo che rende più concreta e incisiva e più possibile negli esiti del negoziato la critica sindacale.
Un sindacato che ha un suo punto di vista ed è consapevole che la risposta possibile non è mai una sola e che la migliore risposta è sempre quella che scaturisce dal confronto e dalla partecipazione consapevole di tutto il sindacato e dei lavoratori.
Una scelta razionale nell’ambito del possibile.
Il sindacato è oggetto delle politiche dei governi. Il sindacato ha un ruolo importante in qualsiasi quadro politico, nella difesa degli interessi anche i più particolari, i quali hanno un indubbio rilievo nell’economia e nella società.
Per questo vale il richiamo rigoroso dell’Europa ad istituire il dialogo sociale. Che è importante non solo per conoscere i rispettivi punti di vista sui problemi, ma per riconoscere gli stessi e individuare se esistono obiettivi comuni sui quali innestare il metodo della cooperazione.
I governi di centro sinistra sono progressisti nella misura in cui includono, universalizzano i diritti, si predispongono alla mediazione e attuano il metodo della cooperazione di soggetti sociali e istituzionali per lo sviluppo, i diritti, la solidarietà.
Il sindacato è una grande forza della democrazia in Italia e nel mondo. Lo è stato nel ‘900 nell’Occidente industrializzato, nel modello sociale europeo e nella democrazia liberale statunitense, deve continuare ad esserlo nel mutare dei tempi e delle funzioni, nell’economia globale e con l’avvento della democrazia in tanti nuovi paesi che si avviano allo sviluppo e al benessere
E’attuale, quindi, avviare in Italia, in presenza di un sistema politico dell’alternanza, un processo di semplificazione, di modernizzazione e di modificazione del ruolo del sindacato italiano nella sua tradizione più illustre, la confederalità; modifiche già per certi aspetti in atto, nella lunga transizione, ma che nella misura in cui non sono assunte nella consapevolezza dagli attori sindacali può derivarne incertezza e crisi del quadro democratico. Sperimentare una nuova confederalità non nell’ampliamento dei poteri delle confederazioni, ma estendendo i poteri di contrattazione delle strutture verticali e territoriali in una visione federalista.
Perché, per esempio, sovraccaricare di significati politici generali la contrattazione del pubblico impiego con una trattativa tra Confederazioni e Governo? Se il contratto ha assunto la forma giuridica privatistica?
Perché le politiche di promozione dello sviluppo regionale, sostenute dall’Europa, la competitività dei territori e la contrattazione di secondo livello non possono vedere un protagonismo più accentuato del sindacato a livello delle regioni?
E’ un processo di omologazione del sindacato italiano a quelli Europei, (sindacati non confederali o flebilmente confederali) e agli Stati Uniti (separazione netta tra partiti e sindacati). Separazione che prende atto di una deideoligizzazione dell’elettorato, se è vero che in Italia i lavoratori votano per tutti gli schieramenti, e parte degli iscritti alla CGIL votano pure per la destra, e indietro non si può tornare con una semplice piattaforma sindacale.
Nella scelta politica ed elettorale il lavoratore si fa carico di valori politici generali entro i quali pensa di trovare soddisfatti i suoi particolari interessi.
Non è solo un voto opportunistico. E’ la legittimazione da parte del mondo del lavoro dell’autonomia della politica.
La condizione necessaria di tutto ciò è che il sistema politico sia compiutamente di alternanza.
Il cittadino in quanto tale deve trovarsi difronte ad una scelta semplificata tra destra e sinistra. O quanto meno tra centro destra e centro sinistra.
Un sistema politico ed elettorale con una estrema frammentazione partitica come in Italia e con dei poli disomogenei al loro interno corrompe la politica e le rappresentanze sociali.
Con la conseguente ingovernabilità, ed emarginazione del sistema paese ed il rischio di un populismo di destra.
Il sistema di democrazia, profondamente rinnovato, nelle forme e nelle regole, nella formazione della classe dirigente, la democrazia come valore centrale della società e della politica italiana, il minimo comune denominatore possibile del riformismo italiano, base di una forza politica, il PD, che aspira ad essere maggioranza di governo, questo modello di democrazia che responsabilizza le forze politiche con l’alternanza, è l’unico scenario possibile nel quale il pluralismo della idee e il pluralismo sociale possano svolgere un ruolo costruttivo nella definizione del merito delle politiche all’interno dei poli, nel dibattito pubblico politico culturale e nel confronto tra governo e parti sociali.
Sempre che si esca dal tunnel della crisi politica e delle istituzioni in Italia. E che si ponga fine ad una esiziale adattamento, attraverso ruoli ambigui, ad una transizione senza fine che logora i fattori di rinnovamento e pericolosamente rende cronica e irreversibile la crisi politica e sociale. Se l’alternanza è la prospettiva giusta, razionale, vuol dire che tutti soggetti si devono ridefinire.
Diversamente sarà difficile praticare l’indifferenza, ma pure la non indifferenza.


Napoli, domenica 27 maggio 2007

Why. Perché?

Se negare la politica vuol dire negare la possibilità che una qualunque persona, in quanto aderente a un partito, un’associazione, un sindacato, un’organizzazione, un movimento, o in quanto semplice cittadino, possa partecipare alla costruzione del discorso pubblico, possa cioè giudicare e adottare, in quanto persona titolare di diritti, criteri autonomi per definire ciò che è giusto o ingiusto, buono o cattivo, desiderabile o deplorevole e partecipare alla costruzione di cerchie di comunicazione politica alternative a quelle dominanti.

Se nonostante la globalizzazione, la drastica accelerazione da essa impressa al processo di sgretolamento dello Stato nazionale, la cattiva maestra televisione, il quotidiano tentativo di dissolvere idee, interessi, rappresentanze, vite, in una sorta di grande circo mediatico, è in quanto partecipiamo che possiamo, ancora oggi, ritenerci consapevolmente cittadini.

Se siamo cittadini in quanto persone che, disponendo di opzioni diverse, si confrontano, si battono, scelgono, si assumono responsabilità, elaborano strategie, contribuiscono all’individuazione e alla ricerca autonoma di contenuti e obiettivi politici, si danno forme e strumenti organizzativi per perseguirli in maniera efficace, verificano sul campo idee, progetti, risultati.

Se questo rapporto tra partecipazione ed esercizio della cittadinanza ci accompagna non solo quando sono in campo grandi idee e movimenti, ma in ogni momento della nostra vita pubblica, quando facciamo la fila al seggio per dare il voto al candidato del nostro collegio uninominale, così come quando partecipiamo a una manifestazione per la pace in Medio Oriente, quando interveniamo alla riunione nella scuola elementare dove è iscritto nostro figlio, così come quando firmiamo un esposto al presidente della circoscrizione per ottenere un corrimano che aiuti i più anziani a non scivolare all’uscita della stazione della funicolare.

Se la politica è il principale antidoto che ciascuno di noi ha a disposizione per provare a vivere da cittadino e non da suddito, da titolare di diritti e non da destinatario di favori, da persona politicamente libera e non da servo contento.

Perchè nei confronti della politica aumenta sempre più la disaffezione, lo scoramento, l'incomprensione, il rifiuto, il disprezzo?

About partecipare


In questo blog si racconta di politica. Delle opportunità che essa rende disponibili per sottrarsi alla dittatura della necessità e aprire la strada alla dimensione della possibilità.
Una politica fatta di passione, senso di responsabilità, lungimiranza (1), che non sia indifferente alla distribuzione della felicità, attenta a ciò che le persone riescono a essere e a fare effettivamente, capace di sostenerle nei loro tentativi di ampliare la gamma delle possibilità tra le quali possono effettivamente scegliere.
Una politica che sappia dare valore ai diritti, non sottovaluti i rischi del condizionamento sociale e dell’adattamento, non riduca la libertà a un semplice vantaggio, sappia stabilire un ordine di priorità nella definizione dei criteri che ci dicono della nostra riuscita reale e della nostra libertà di riuscire.
Racconteremo dunque di donne e di uomini che hanno a cuore un interesse personale o collettivo, un ideale sociale, un progetto di società più felice o anche solo meno ingiusta e intendono operare, per variegate ragioni e motivazioni, con aspettative, tempi e impegno diversi, per vederli realizzati.
Persone che a tale scopo cercano di stabilire connessioni con altri, come loro facenti parte di cerchie, gruppi, comunità, associazioni, sindacati, partiti e, per questa via, tentano di rendere più forti e stabili le reti sociali di cui fanno parte e, con esse, le norme di reciprocità e di fiducia che le sostengono.
Persone che non intendono rinunciare rassegnarsi all’idea della politica come pratica del meno peggio (2), che credono nella possibilità di dare agli altri senza rinunciare ad avere cura e a valorizzare sé stessi (3), che considerano il sapere non solo una delle più significative ricchezze della società contemporanea ma anche una delle opportunità più importanti a nostra disposizione per essere e sentirci liberi e per esercitare la solidarietà con altri esseri, come noi, umani (4).
In questo libro si racconta insomma di persone che in sintonia con i propri convincimenti e, soprattutto, con le proprie azioni, ritengono giusto partecipare da attori alla costruzione del discorso pubblico.
E di persone che invece no. Perché non hanno più né voglia né fiducia per fare domande alla politica. Perché se proprio sono costretti a farlo si limitano a chiedere favori. Perché vivono la politica come una sommatoria indistinta e poltigliosa di ingredienti diversi che più soggetti solo apparentemente alternativi propongono a cittadini sempre meno interessati a investire tempo, impegno, ingegno, in questa direzione. Perché ritengono che la discussione, il confronto con punti di vista diversi dai propri, lo sforzo di comprendere le ragioni degli altri, siano esercizi a volte nobili, più spesso ipocriti, sempre inutili. Perché non credono nella possibilità che le idee, le convinzioni, le azioni di ciascun individuo possano realmente incidere, nell’ambito della sfera pubblica, sullo stato di cose esistenti. Perché sono stufi di sentirsi dire che stanno per diventare tutti ricchi, soprattutto se sono percettori di reddito fisso, o che stanno tutti impoverendo, in particolar modo se fanno parte della schiera dei cosiddetti patrimonializzati. Perché non hanno più voglia di perdere tempo con gli infiniti paroloni dei teorici dell’eccellenza, e aspirano a vedere riconosciuti dal versante sociale, professionale ed economico gli sforzi di chi, come loro, punta sulla crescita di buone competenze intermedie.
Per questa via, proveremo a porci sia domande che riguardano la teoria politica descrittiva, quella che punta, per l’appunto, a descrivere come stanno le cose e non come esse dovrebbero stare alla luce di un qualche criterio, sia domande che chiamano in causa i nostri impegni normativi, i nostri criteri del giudizio politico, la nostra idea di società giusta o desiderabile.
Ci ritroveremo in questo modo a ragionare sulla natura della politica democratica, su quale ruolo o spazio essa continua ad avere nelle nostre vite. E potremo vedere come cambiano, più specificatamente nella parte ricca del mondo, i soggetti della politica democratica, come e perché cittadini e cittadine governati possono agire politicamente, nello spazio pubblico, e in che modo sono in grado di scegliere e valutare i governanti (come sappiamo, il criterio del giudizio del cittadino sulla politica è la sua prima forma di partecipazione, dato che, rinunciando a giudicare, il cittadino si tira fuori dalla vita pubblica).