domenica, agosto 05, 2007

Reloaded 1

In questo nostro mondo caratterizzato dal predominio dei poteri economici globali sui poteri politici nazionali, dallo sviluppo impetuoso e asimmetrico dei sistemi di comunicazione, dalla precarietà e dall’insicurezza che regolano le nostre vite e i nostri rapporti sociali, occorre in buona sostanza non rinunciare a chiedersi a quali condizioni è possibile assumere un punto di vista capace di ripensare il processo democratico come, per l’appunto, un processo da difendere, salvaguardare, verificare, meritare, giorno dopo giorno, con pazienza, lavoro, rigore.
L’idea è che tirare a campare, ritagliarsi il proprio piccolo spazio di sopravvivenza, rispondere alla propria insoddisfazione tentando di conseguire, spesso nella più totale assenza di ogni senso del dovere, un qualche proprio tornaconto personale, alla lunga non porti da nessuna parte. Che oggi più che mai occorra comprendere le ragioni dell’altro. Accoglierlo. Come ci ha spiegato Emmanuel Levinas, “L’origine dell’esistenza etica è la faccia dell’altro, con la sua richiesta di risposta; […] l’altro diventa il mio prossimo precisamente attraverso il modo in cui la sua faccia mi chiama” (15).
In definitiva, la nostra è una tesi a favore dell’idea che nella società moderna, interdipendente, inflazionata di informazioni e deflazionata di senso, la qualità della democrazia e della cittadinanza dipende dalla consapevolezza soggettiva, dalla determinazione, dalla capacità di stabilire connessioni, da parte delle singole persone, almeno tanto quanto dalla efficienza e dalla credibilità delle strutture (16).
Occorre impegno. Ci vuole carattere. E la serena consapevolezza che pensare di agire con apertura, equilibrio, senso di giustizia nei confronti dell’altro è una cosa, riuscire a farlo, un’altra.
Una cosa è conoscere la via, altra cosa è percorrerla, come ripete Morpheus, geniale hacker e indomito condottiero, ad un incerto Neo ancora inconsapevole del proprio ruolo, della propria identità, della propria importanza nello scontro senza fine tra Matrix e Zion, tra il mondo degli uomini e quello delle macchine. (17)

Crisi della politica 2

Cass Sunstein, professore di Jurisprudence alla Law School dell’Università di Chicago, ha messo ad esempio in guardia dal “grande rischio che una discussione condotta fra soggetti che la pensano allo stesso modo possa alimentare una sicurezza eccessiva, estremismo, disprezzo per gli altri, e a tratti anche violenza” (8).
Vedremo più avanti in che senso e perché la libertà va associata alla possibilità di essere esposti a idee, valori, questioni, opinioni diverse, non prevedibili né preordinate. Per adesso ci basta ribadire che essere attenti e sensibili, mostrare capacità di ascolto, dare valore a tesi, argomenti, ragionamenti anche radicalmente divergenti dai propri, produce effetti sicuramente positivi sullo stato di salute delle nostre democrazie.
Tornando al punto, possiamo dire che l’attuale fase liquida dello sviluppo delle democrazie che usiamo definire avanzate è caratterizzata da un vero e proprio ribaltamento di paradigma, di prospettiva, di priorità.
Dalla fase in cui la priorità era la difesa dell’autonomia del privato dalla presenza invasiva e soffocante del pubblico siamo passati ad una fase nella quale occorre proteggere lo spazio pubblico in via di estinzione, rimettere assieme i cocci prodotti dalla separazione tra potere e politica, dal rafforzamento dei processi di individualizzazione e dalla conseguente contrazione dei processi di socializzazione.
Viviamo come “risucchiati da un vortice in cui tutte le realtà e tutti i valori sono annullati, esplosi, decomposti e ricombinati [ mentre tutto intorno c’è ] una incertezza di fondo riguardo a cosa sia fondamentale, a cosa sia prezioso, persino a cosa sia reale” (9).
Si tratta di qualcosa di molto diverso dalla consapevolezza che qualunque ambito, storia, evento, scenario, presenta inevitabilmente luci e ombre. E’ qualcosa di molto più forte della necessità di fare i conti con il lato oscuro della forza. La sensazione è che stavolta a correre il rischio di crollare sono i muri maestri, quelli che sorreggono l’intera costruzione. Ed è una sensazione che neppure la vittoria della democrazia sul comunismo e il nazi-fascismo, le grandi ideologie totalitaristiche che hanno segnato il secolo breve, riesce a rendere meno angosciante.
E’ come se a oltre 15 anni dalla caduta del muro di Berlino, e dalla scomparsa dei grandi miti e delle ideologie, le democrazie moderne, orfane di ogni alterità, prive di partiti in grado di smarcarsi dalla forza omologante dei media, senza dialettica e conflitto sociale e dunque senza una politica autenticamente democratica, corrano il rischio di smarrire non solo la propria spinta propulsiva, ma persino la propria capacità di legittimarsi. Come sostiene in modo provocatorio e profetico Alain Badiou, “il nemico oggi non si chiama Impero o Capitale: si chiama Democrazia" (10).
Per molti versi, lo stesso impetuoso sviluppo della società dell’informazione, l’affermazione di processi di deterritorializzazione e di de-personalizzazione che individuano nel cyberspazio il luogo nel quale si incontrano e si scontrano idee, nickname, simboli, virtualità, i cambiamenti culturali, sociali, economici collegati alla diffusione delle nuove tecnologie digitali, contribuiscono a diffondere, e rendere più densa, la nebbia dell’incertezza che avvolge le nostre vite.

Crisi della politica 1

Le differenze aiutano la partecipazione. Eppure quello che abbiamo definito il potere omologante della globalizzazione sembra inarrestabile cosicché, nelle società moderne, la discussione democratica appare come rinsecchita, impoverita, ripiegata su sé stessa. Coloro che ritengono di avere, nelle condizioni date, ragioni e motivazioni per stare in campo con un ruolo attivo nell’ambito dello spazio pubblico diminuiscono sempre di più. E tra questi, ad essere maggiormente esposti alle temperie del “non so, non capisco, non mi interesso, non posso farci nulla” sono proprio i più giovani, quelli che con il loro ardore dovrebbero rappresentare “la maggiore forza, l’apice, la perfezione, l’akun della natura umana” (6), e che dunque nessuna società, nei confini della politica prima ancora che in altri, dovrebbe permettersi il lusso di trascurare.

La politica in crisi diventa in buona sostanza sempre più povera di idee, di differenze, di contenuti. Si omogeneizza. Al punto che agli occhi dell’uomo della strada, del cittadino comune, nella realtà insicuro, sfiduciato, con seri problemi di identità, incapace di influire sulle scelte pubbliche, orientato a fuggire da ogni responsabilità (4), le differenze appaiono sempre meno percettibili: tutti uguali, tutti assai poco credibili, tutti poco interessati a dare risposta ai problemi reali dei cittadini. Nonostante l’assunzione di scelte coraggiose e il confronto tra strategie diverse abbia, tra gli altri, il meriti di determinare esiti diversi da quelli ipotizzati in origine, anche nei casi più difficili e controversi, quello in atto è un lento ma inesorabile processo di neutralizzazione delle differenze che accomuna tutti i paesi maggiormente industrializzati e si interseca in diversi modi con una supposta oggettiva omogeneità delle scelte di governo che è possibile operare in ambito nazionale a causa dei sempre maggiori vincoli esistenti a livello internazionale. Prospettare visioni delle cose e soluzioni dei problemi alternative viene visto come un esercizio anacronistico, residuale, antistorico, inutile, a fronte di scelte che con troppa enfasi vengono considerate inevitabili, neutrali. Non a caso, uno dei caratteri più forti dei processi di globalizzazione così come siamo soliti intenderli in questa fase (5), sta proprio nel suo potere omologante, nella sua capacità di rendere irrilevanti le differenze, di farle apparire per un verso come puro folklore e per un altro, peggio ancora, come scorie dalle quali liberarsi.
Con il risultato che nelle nostre società stressate e sotto assedio partecipare diventa sempre più “out”. Delegare, un modo elegante per abbandonare la partita. Crescono il senso di disaffezione e la voglia di disimpegno. La cultura civica e il senso dello Stato sono sempre meno diffusi non solo tra i comuni cittadini ma anche tra le elité di governo (quanto accade nel nostro Paese, che ha avuto e ha la ventura di annoverare nella sua classe dirigente Ministri della Repubblica che partecipano a manifestazioni al grido di “chi non salta italiano è”, propongono taglie sulle teste dei malviventi più o meno occasionali, sostengono la necessità di abbandonare l’Euro e reintrodurre la Lira, ne é purtroppo un esempio).
Lo stesso esercizio del diritto di voto, la possibilità di contribuire per questa via alla scelta di classi dirigenti e programmi, subisce, dato questo quadro, una perdita di credibilità, di interesse, di senso.

Why, again

Nel corso del nostro racconto cercheremo di fornire ragioni e argomenti che possano in qualche modo aiutarci a rispondere alla domanda fatidica relativa alle ragioni per le quali persone come noi, con i difetti, le delusioni, la confusione, la voglia di vivere, le aspettative di futuro che le contraddistinguono, dovrebbero sentire il dovere di pensare ed agire da cittadini, trovare ragioni e motivazioni per partecipare alla costruzione del discorso pubblico. Di spiegare in che senso e perché è auspicabile che si faccia almeno un passo avanti nella “transizione dal diritto internazionale classico, tuttora ancorato al modello ottocentesco dello Stato – Nazione, ad un nuovo ordine cosmopolitico, di cui dovrebbero diventare attori politici le istituzioni internazionali e le alleanze continentali” (6). E in che modo tutto questo potrebbe dare un contributo importante alla costruzione di un mondo senza superstati e senza nazionalismi esasperati.
Cercheremo di chiarire perché, come suggerisce Pedrag Matvejevic, l'idea di un Europa meno eurocentrica ed egoista, "più consapevole di sé stessa e meno soggetta all'americanizzazione, più cosmopolita, più comprensiva, meno orgogliosa" (6), è una buona idea. E di portare argomenti a sostegno della necessità di mettere in campo azioni positive in grado di fornire ragioni e motivazioni all’impegno e alla partecipazione dei cittadini alla costruzione del discorso pubblico.
Nel corso del nostro cammino incroceremo naturalmente domande più e meno usuali, più e meno complicate: in che senso il concetto di nazione ha perso buona parte del suo significato economico; perché è in campo una questione sociale strettamente connessa ai processi economici che siamo soliti definire globali; perché è importante lasciare tracce; in che senso se non abbiamo futuro diminuiscono le possibilità di connessione con gli altri e siamo più soli; perché rivendicare un mondo nel quale ci siano prima di tutto diritti per tutti non è soltanto una speranza o, peggio ancora, uno slogan.
Ci guiderà nel tentativo mai finito di rintracciare risposte possibili l’idea, sulla quale siamo ritornati più volte nel corso degli anni, che nella fase attuale di sviluppo della democrazia nei paesi economicamente sviluppati proprio la partecipazione dei cittadini alla costruzione del discorso pubblico assuma una rilevanza per molte ragioni decisiva. E la consapevolezza che una società possa essere definita più giusta o, meglio, meno ingiusta, se è in grado di favorire processi e progetti di inclusione, tanto dal versante culturale, quanto da quello politico, sociale, economico.
Il nostro punto di vista sarà quello di chi ritiene che esista una connessione forte tra la scarsità di luoghi, strutture, spazi pubblici a disposizione dei cittadini e lo stato di salute delle nostre declinanti democrazie, e da ciò fa discendere la necessità di creare occasioni e di individuare luoghi nei quali le persone si sentano responsabilmente coinvolte, non usate, nei quali sia possibile conoscere, proporre, operare, condividere, verificare opinioni, opzioni, scelte. E’ il punto di vista di chi è convinto che, nelle piccole cose di ogni giorno come nelle occasioni importanti della vita, il rispetto delle regole sia alla lunga la vera scelta razionale, non ideologica, conveniente. In questo meraviglioso e contraddittorio mondo, nel quale se scopri la penicillina nessuno ti conosce e se partecipi ad un reality show rischi di diventare una star, abbiamo ancora tanta strada da fare prima di poter comprendere davvero in che senso e perché “contribuire ad aumentare il capitale sociale vuol dire essere più intelligenti, più sani, più sicuri, più capaci di governare una democrazia giusta e stabile”. (7)
Cercheremo in ogni caso di individuare percorsi che in vario modo possano contribuire a determinare, e rendere credibile, una inversione di tendenza, e di evidenziare alcune esperienze, a nostro avviso molto significative, di istituzioni, movimenti, persone che anche in questi anni difficili non hanno rinunciato a stare in campo. Con il coraggio delle proprie idee e delle proprie scelte. Con la propria testa, il proprio carattere, le proprie mani.
L’auspicio è quello di contribuire anche per questa via all’affermazione, alla valorizzazione e, soprattutto, alla diffusione, di quelle buone pratiche di partecipazione, di cittadinanza e di governo che più hanno prodotto risultati positivi. E di concorrere a delineare i tratti di una società possibile, meno imperfetta, con un più basso indice di sofferenza sociale, nella quale ci si possa ritrovare a vivere, con altri, vite almeno un poco più felici, più serene, meno insoddisfatte.
Per tutte le ragioni fin qui accennate e molte altre ancora, ci accompagnerà nel nostro viaggio la non banale consapevolezza che in politica, così come del resto in tutte le cose della vita, qualunque punto di vista, per quanto autorevole, convincente, condivisibile possa essere, rimane, per l’appunto, soltanto uno dei punti di vista possibili. Che esistono sempre più soluzioni allo stesso problema e tale pluralità di risposte possibili mira, nel migliore dei casi, a ridurre l’ingiustizia e la sofferenza socialmente evitabile e non certo a massimizzare il bene. Che sulle strade della politica non esistono pozzi senza fondo e dunque per fare bisogna scegliere, il che vuol dire sostanzialmente definire ordini di priorità e stabilire criteri di urgenza il più possibile rispondenti o, più realisticamente, il meno possibile divergenti, dai valori, dagli interessi, talvolta dai ceti sociali che si ritiene utile o giusto privilegiare. E che naturalmente non sfugge alla regola la lettura dello stato di salute delle nostre democrazie proposta in queste pagine.
Ancora due messaggi prima di procedere oltre, con l’auspicio che possano fare da segnaposto, da promemoria da conservare da qualche parte, ai quali dedicare ogni tanto uno sguardo o una riflessione.
Il primo ci ricorda che l’idea di continuare a pensarsi più intelligenti della generazione precedente e più saggi di quella successiva non è in fondo una grande idea. Che è meglio piuttosto immaginare società nelle quali siano i figli che insegnano ai padri, i bambini agli adulti, gli alunni agli insegnanti. Società che sappiano valorizzare la genialità dei più piccoli, la loro capacità di avere una visione globale delle cose.
Il secondo è di Barry Lopez, che ha scritto che “le storie che raccontiamo alla fine si prendono cura di noi. Se ti arrivano delle storie, abbine cura. E impara a regalarle dove ce n’è bisogno. A volte una persona per sopravvivere ha bisogno di una storia più ancora che di cibo. Ecco perché inseriamo queste storie nella memoria gli uni degli altri. E’ il nostro modo di prenderci cura di noi stessi” (8).
Buona lettura.