sabato, aprile 29, 2006

Massimo Santoro 1

Diario Elezioni

PROLOGO
In nessun paese la classe dirigente uscita sconfitta da una tornata elettorale per il governo nazionale si ripresenta, senza eccezione alcuna, ad un appuntamento elettorale cinque anni dopo.
In nessun paese si ricandida, a distanza di 10 anni, lo stesso candidato premier. E’ segno inequivocabile della incapacità (e quindi della volontà) di procedere a forme innovative di coinvolgimento, partecipazione e selezione di una nuova classe dirigente. Quella attuale si va configurando sempre più come una sorta di oligarchia chiusa che cerca di governare sudditi più che cittadini. Anche per questo non ho votato alle primarie: Le primarie o si fanno sempre o non hanno motivo di esistere.

SCENA PRIMA
Comincia la campagna elettorale. Le liste sono fatte e gli effetti della “porcata” sono sotto gli occhi tutti. Niente primarie per scegliere i candidati (of course), ma in compenso mogli, cognati e schiere di avvocati di fiducia in un crescente delirio di onnipotenza dei gruppi dirigenti dei partiti. Comunque i sondaggi dicono che……..

SCENA SECONDA
La campagna elettorale si fa in televisione. Niente telefonate per volantinaggi, caseggiati, manifestazioni, comizi. Pochi inviti per incontri tra cui una cena per finanziare la campagna elettorale di un candidato. Assicuro la mia presenza poi non vado (solo avarizia?).
Intanto Rete 4 trasmette copiosi comizi di Berlusconi sempre pieni di gente festosa e plaudente. Possibile che sono tutti pagati per stare li? Ma chi è che vota Berlusconi con un paese ridotto così? Comincio ad avere qualche dubbio, cerco di dis-mettere i panni dell’arrabbiato e provo a ragionare. Fortuna che i sondaggi continuano a dire che………

SCENA TERZA
Sul settimanale “diario” (www.diario.it) esce, a firma di Mario Portanova, un inchiesta vecchio stile su una giornata tipica della campagna elettorale di Berlusconi. Si racconta di gente che piange quando lo tocca e di altri (esaltati?, ciechi?, marziani?) che si dicono sicuri di vincere, che il paese non può finire in mano ai “comunisti”, dell’unione troppo divisa e di un programma troppo lungo e vago. Intanto in TV non si parla d’altro che di tasse, cunei fiscali, imposte di successione. E la scuola? l’Università? la ricerca? il lavoro? . “Sò un tantino preoccupato” , diceva nel film Febbre da Cavallo, Gigi Proietti (alias Mandrake) a Enrico Montesano (alias er Pomata) quando vedono il cavallo su cui avevano scommesso tutto arrancare in vista del traguardo.
Mi rituffo in stabili a rassicuranti sondaggi……..

SCENA QUARTA
Basta!, mi dico, con la critica distruttiva e la campagna elettorale in TV. Meglio ascoltare dal vivo. Osservando le facce di chi parla e, soprattutto, di chi ascolta ho sempre pensato di capire molte più cose. Al Teatro Mediterraneo arrivano D’Alema e Bassolino. Pubblico delle grandi occasioni si direbbe in gergo calcistico. Ascolto D’Alema con attenzione e noto come faccia spesso battute con un ritmo ed una frequenza tali che per un attimo mi giro per cercare lo sguardo o un cenno di qualcuno che avesse notato la mia stessa cosa. Non mi fa un bell’effetto la cosa ma confesso di essere un po’ prevenuto con il personaggio. Decido di guadagnare l’uscita non dopo aver sentito che “è difficile confrontarsi con chi in cinque anni di governo non ha fatto nulla!”. Nulla? E le leggi-vergogna? La riforma della Costituzione? quella della scuola? del mercato del lavoro? il condono edilizio? Boh?
Sondaggio: Prodi 52% - Berlusconi 47%. Primum vincere e in culo a tutto il resto.



SCENA QUINTA
E’ venerdì: si chiude la campagna elettorale (si dice che è stata una pessima campagna elettorale. Dissento. Se ci fate caso gli insulti sono stati la cosa migliore). L’Unione lascia (per cavalleria?, per calcolo?, pè scemenza?) Piazza del Plebiscito a Berlusconi e si rifugia nella peraltro bellissima arena flegrea con seguito di cantanti, attori comici etc. Non c’è storia. Preferisco l’originale. Chiamo il mio amico Davide (insieme abbiamo fondato l’associazione “silenzi eloquenti” con lo scopo, parafrasando Eduardo Galeano, di usare e fare solo cose che migliorino il silenzio); armati di telecamera amatoriale e microfono rigorosamente finto andiamo a sentire da vicino il popolo della destra. Così per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Dopo aver avvicinato per primi quattro ragazzi (poliziotti in borghese) che ci hanno invitato a soprassedere abbiamo intervistato tra gli altri:
1 – una ragazza con gelato che ha detto di essere lì per ascoltare e che Berlusconi non l’aveva convinta per niente
2 – Una donna che era venuta da Lecce per vedere l’adorato cavaliere e che amava soprattutto il suo lifting. Scherzava. Forse.
3 – Un vecchio nostalgico che stava lì ricordando che i comizi di Almirante erano un’altra cosa
4 – un consigliere di un comune del napoletano che, dopo averci “sgamati”, ci ha chiesto un’intervista seria. Increduli abbiamo accettato. Non ricordiamo che cosa ha detto.
Per il resto tante bandiere di AN, un banchetto con i cimeli del duce, cittadini che protestavano contro la Gestline, Casini che annuncia l’avviso di di sfratto a Bassolino. Il comizio viene chiuso da Fini che gioca a fare il fascista tutto “patriaamoreefamiglia”. Aspettiamo in un angolo che la gente defluisca quando Berlusconi riprende il microfono e urla che vincerà le elezioni perché gli italiani non sono coglioni. Pandemonio. Sipario.

SCENA SESTA
E’ notte inoltrata. Più passano le ore, più non si capisce chi ha vinto.Vado a letto alle 2.15 sperando di risvegliarmi in un paese senza Berlusconi. Niente da fare. Vado a lavorare pieno di angoscia. La notizia della vittoria mi raggiunge a metà mattinata. Chiamo mio fratello Fabrizio (italiano all’estero) e lo ringrazio. Mi dice che visti da fuori siamo un paese veramente ridicolo.

EPILOGO
Mentre scrivo si dibatte (in maniera finta) su chi abbia vinto realmente. Aspetto con pazienza la parola fine per vedere con curiosità come farà Prodi a governare (e bene) che mi sembra sia l’unica cosa rimasta da fare.
Nel frattempo a Napoli ci prepariamo alle elezioni comunali. In città campeggia un manifesto del Sindaco Jervolino truccata da sembrare 10 anni più giovane e mi chiedo come sarà un paese berlusconizzato senza Berlusconi.
“Comincio ad avere opinioni che non condivido” direbbe W.Allen.

Tobias Piller 1

Caro Enzo,

grazie per il tuo articolo.

Il mio giudizio sulla politica del governo uscente per il Sud non è così tranchant. Comunque, il grande colpo, come avevano promesso, non l’hanno fatto. Qualcosa si è tentato al centro, forse anche con qualche piccolo effetto, ma vedo tante responsabilità non a Roma, ma nelle Regioni. Certamente, vedendo quelle poche volte in azione Miccichè, fa piangere, perché ostenta sempre quanto in fondo è intelligente e quanto è impreparato e senza strategia.

Mi piace l’osservazione sui sudditi al Sud. Davvero, cittadini e classi dirigenti non prendono in mano la situazione, perché in tanti non la vogliono cambiare e si aspettano tanto di più dal vecchio clientelismo. Che promette a tutti e poi dà poco a pochi e blocca il vero sviluppo.

Il clientelismo, purtroppo, sembra destinato a rimanere un tratto caratteristico della realtà meridionale. E questo compromette tanto anche le future iniziative del nuovo governo per il Sud.

Un’altra cosa, sempre più importante, ma sempre ignorata: Il Sud, la Campania, la Sicilia, dovrebbero smettere di guardarsi sempre l’ombelico.
La parola magica potrebbe essere “benchmarking”.
Confrontarsi, se guardiamo per esempio al turismo, con altre mete come Malta, Mallorca, Rimini, Caraibi, Turchia, Mauritius etc., o con altre città, sarebbe molto utile. Si scoprirebbe ad esempio che Torino ogni anno vende il doppio dei pernottamenti di Napoli!
Altro argomento di benchmarking potrebbe essere la capacità di attrarre investitori dal Settentrione o dall’estero. Confrontarsi intorno a temi come le professionalità che cercano, la formazione di cui hanno bisogno, etc.
Da questo punto di vista anche i media hanno a mio avviso delle responsabilità, perché fanno da sudditi ai politici e non aiutano il benchmarking.

Faccio fatico, purtroppo, a immaginare che tutto questo possa essere superato. A Napoli, tutte le speranze svaniranno, ma dopo Bassolino arriverà un altro politico che ricomincia da capo, con meno entusiasmo.

Tanti saluti
Tobias

Sandra Macci 1

Caro Vincenzo,

10 anni dopo c’è ancora bisogno di idee, proposte ecc. Eppure mi viene voglia di chiederti/ci come è possibile che ci si lascia sempre prendere in contro piede? È possibile ti rispondo, basta smetterla con i mal di pancia, le logiche binarie egemonia - unità; solidarismo - massimalismo. È probabilmente utile un’iniezione di pensiero liberale.

Far agire la responsabilità, attraverso la realtà per quella che è e non per quella che si vorrebbe che fosse, ma soprattutto basta con gli stereotipi e i luoghi comuni sul mondo. C’è sempre qualcosa che non va, quando si è esclusi, c’è sempre qualcosa che va, se si è inclusi. C’è qualcosa che non funziona.

Per adesso ti trasmetto un “articolo?” (sic!) che ho inviato a dicembre al giornale NO STOP. Successivamente voglio discutere su “come le donne non prendono partito” e sul perché gli italiani sono dei geni e i (glocal) napoletani in particolare.

Ciao

Sandra


Ma … il femminismo italiano è scoppiato?
di Alessandra Macci

La questione del femminismo torna sulle pagine dei giornali.

A settembre, l’inchiesta di Simonetta Fiori “su come cambia il femminismo” ha rappresentato in modo più o meno particolareggiato e problematico il movimento femminista, tra lacerazioni, silenzi e derive clericali….
Voci di donne segnalavano comunque un mutamento dei princìpi fondamentali, sul versante della contraccezione, dell’aborto, della maternità, della vita.

Qualche giorno prima, il quotidiano “La Repubblica”, nello speciale “Diario”, aveva trattato l’altro corno della questione: la famiglia, i cambiamenti nei rapporti di potere nel nucleo familiare, i rapporti con la società e lo Stato, le polemiche sulle coppie di fatto.

Non si spegnerà rapidamente la riflessione sul femminismo, perché all’approfondimento giornalistico si affiancano il dibattito sull’astensione al referendum e sulla procreazione medicalmente assistita, la discussione su un saggio di Anna Bravo, “controverso” secondo alcuni, che affronta il rapporto fra le origini e il presente del femminismo, fra le protagoniste e le eredi della memoria, fra cattive ragazze di ieri e buone cittadine di oggi.
Sono questi i temi politici che il pensiero delle donne sta indagando e rivisitando attualizzando “la narrazione” che le donne hanno maturato.

Le donne contro il femminismo? Un paradosso, anzi una trappola, che le donne intervistate hanno tutte evitato, pur spingendo la riflessione molto in avanti: il rapporto tra femminismo e teologia; tra femminismo della parità e femminismo della differenza; tra famiglia e lavoro ecc.

E’ utile rileggere la Irigaray: “nessun naturalismo, affettività semplice o moralismo può stabilire l’unità familiare com’era. E la famiglia allargata, le diverse famiglie politiche o religiose non possono nemmeno sostituire quella cellula familiare dove la legge umana e la legge divina erano allo stesso tempo diverse tra l’uomo e la donna e riunite tramite il culto dei morti, come scrive Hegel”. Questo momento della storia è dietro di noi. E non c’è da rimpiangerlo. Né da pensare che con questo l’umanità stia svanendo. Una tappa del suo divenire è, speriamo, finita, un capitolo della storia patriarcale sta, me lo auguro, scomparendo quali che siano le regressioni o i sussulti che osserviamo. Andiamo avanti. Non ci sono accuse da rivolgere, né territori nebulosi da schiarire.”

Infatti, la “questione del femminismo” riguarda più le rappresentazioni e le interpretazioni che i fatti.

Ecco i fatti. Oggi il femminismo è ovunque: in relazioni significative tra donne e tra donne e uomini; in scritture magistrali di donne del passato e del presente; in rete, dove è possibile recuperare documenti, testi, biografie, la storia/le storie del movimento.

E’ necessario sgombrare il campo dalle interpretazioni: la politica delle donne c’è. Ed è più efficace di quanto si immagini.
C’è invece chi confonde le battaglie impostate dai radicali per il diritto all’aborto con il movimento femminista - che non aveva quella impostazione individualista; la cultura ufficiale – politica e giornalistica – stenta a capire che gli arricchimenti del pensiero femminista su molte questioni non necessitano di semplificazioni. Gli arricchimenti non appartengono a delle élite, il pensiero non è riserva di poche, essi sono proprio come si presentano.

Capisco e non mi meraviglio della superficialità dei media, che hanno divulgato il femminismo attraverso stereotipi, capisco meno la politica che, ad ogni scadenza elettorale e/o congressuale, riduce la questione del femminismo alla richiesta di parità. Sono cose diverse. Bisogna cominciare a chiamare le cose con il proprio nome. Ecco perché da anni, la questione del femminismo viene sbandierata: dai partiti, dai sindacati, dall’associazionismo che neanche provano a capire che è una questione di linguaggio, per dirlo con la Muraro “quello che le donne hanno da dire a questo tipo di civiltà e che bene o male hanno cominciato a dire, spinge fuori dai suoi quadri. Non si dimentichi che, se noi femministe abbiamo detto qualcosa di valido lo abbiamo potuto dire grazie ad un ascolto fine di noi stesse e delle altre”. Torna, insomma, ad agire il quadro dentro al quale dovremmo esprimerci altrimenti siamo contate-date per “mute”.

Fuori dal quadro restano le pratiche politiche che abbiamo inventato, insieme alla nostra consapevolezza che in questa materia la macchina politica degli schieramenti contrapposti è deleteria. Fuori dal quadro continua a restare la differenza femminile.

Invece, sulle pagine dei quotidiani, nelle chiacchiere politiche o nei corsivi delle/degli opinioniste/i, emerge lo stereotipo delle femministe, per l’appunto fuori moda; prive di parole; interessate solo al potere.

Finchè non ci si pone in relazione con queste esperienze, nella tematizzazione-teorizzazione della differenza dei sessi: noi siamo politicamente fuori. Ed è, come si sa, un’altra tappa dell’assimilazione, neutralizzazione della differenza.

La storia del femminismo è la storia delle sue pratiche, che sono molte e varie, ma due sono i tratti comuni a tutte: il partire da sé e la relazione, che disegnano una struttura del sapere, come dell’agire, aperta a sviluppi senza fine. L’altro, l’altra diventano, infatti, il termine di un rapporto in cui io stessa sono in gioco, io stessa cambio, e l’altro non è oggetto né di conoscenza, né di desiderio, ma un altro soggetto con cui scambio conoscenza, desiderio, progetti che circolano e si ricreano.

Se il femminismo non è collassato con i progetti rivoluzionari del secolo scorso (socialismo – comunismo), questo lo si deve alla forza delle sue pratiche politiche.

C’è stata una fase in cui l’enfasi sull’oppressione e la liberazione si nutriva della facile identificazione delle donne con gli oppressi. Era allora che una certa idea di politica lasciava credere che, facendo leva sulla doppia militanza, sul dentro-fuori, si potessero rovesciare i rapporti uomo-donna, partiti-movimento ecc.

Si aveva un’idea piuttosto unitaria della realtà. Ma è stata proprio l’esperienza politica nei gruppi femministi che mi/ci ha insegnato a prendere le distanze da quella realtà intellettuale per imparare insieme ad un altro linguaggio, anche un altro senso della politica.

C’è uno jato fra una cultura politica attardata sul paradigma emancipazionista tradizionale - solita litania per cui alle donne mancherebbe sempre qualcosa, o il potere o la parità col sesso al potere - e la narrazione delle esperienze femminili.

Nel senso comune, il femminismo viene inteso come affermazione d’identità femminile, contro gli uomini e/o per la parità con gli uomini. Fin dall’inizio, queste due modalità sono state in conflitto dentro il movimento delle donne. Ed è tuttora un campo conflittuale fra quelle che vogliono affermare il senso libero della differenza femminile e quelle che rivendicano le politiche di parità, fra quelle che sentono di essere coinvolte, implicate in un cambiamento profondo della realtà storica e quelle che vogliono semplicemente contare di più.

E’ evidente che il senso comune recepisce la versione che gli corrisponde di più, che è quella meno dirompente.

Questa divisione che passa nel femminismo corrisponde a un conflitto più largo che si gioca nella nostra società sulle soluzioni (ma potrà mai essercene una?) da dare alla crisi, al passaggio dal XX al XXI secolo.

C’è una tendenza a vedere l’immissione delle donne nello sviluppo, nella modernizzazione, nelle caserme, nella politica, come un apporto positivo per dare soluzione a questa crisi che ristagna su se stessa.

Le agenzie internazionali leggono così i dati sulla condizione femminile e il femminismo paritario va nella stessa direzione.

L’altra posizione, quella del femminismo della differenza, va oltre questo ovvio traguardo paritario, ha l’ambizione di inaugurare (ma di fatto l’ha già inaugurato) un altro tempo, dice che nel vecchio che cade a pezzi c’è già dell’altro e che questo femminismo è già quest’altra cosa.

Per essere chiara: non si sta parlando di un conflitto tra: uomini-donne, bensì di un conflitto donne-donne, donne-uomini, un campo in cui le donne compaiono due volte in un duplice dinamismo che riguarda i rapporti fra loro e con l’altro sesso. E che non è solo questione di donne o delle donne: ne va di un altro paradigma, di un altro senso dell’essere, per usare una terminologia filosofica che congeda tutti i termini con cui la crisi è stata finora pensata. Si tratta dell’essere due.

…..”E dato che non è nei poteri di nessuno buttare via certe parole, la parola femminismo non solo non va buttata via, ma va fatta vedere come campo di battaglia, un polemos fecondo che non si è ancora esaurito. Una parola nuova forse verrà, forse no. Per l’oggi la parola femminismo è ancora una parola densa, spessa, forse non soddisfacente, ma che tuttora mette in difficoltà e che perciò si tende a far fuori. Rinunciarci significherebbe ridurre, consegnare interamente il femminismo alle politiche di parità”.

No, questo polemos non solo non va abbandonato ma va mostrato, insegnato. Sì perché come tutte le esperienze umane il femminismo attraversa le sue pratiche, è esperienza umana fondamentale, va insegnata, si può insegnare.

Rileggere l’esperienza di un’altra, diversa dalla propria, offrire le chiavi di questa rilettura, significa far conoscere, non solo assorbire, un pensiero. Fare riaccadere il femminismo significa questo, farlo conoscere attraverso qualcosa che non è accaduto e che può accadere. Traghettarlo non con l’insegnamento accademico ma dentro una relazione viva, che incoraggi il protagonismo di chi ascolta.

Tra la troppa introversione del femminismo degli inizi, alla troppa estroversione del femminismo di oggi, c’è un cammino caratterizzato da infedeltà. Il pensiero moderno ci ha imposto come modello il rispetto del medesimo, dell’identico, dell’uno e dell’unico soggetto.

La differenza sessuale non è la semplice presa d’atto di una differenza fisica o tutt’al più culturale, ma è una differenza che corrisponde a una specifica articolazione tra corpo e parole.

…”Non è per caso che la donna privilegia la relazione con un altro soggetto, la relazione a due, la relazione nella differenza, la relazione orizzontale con l’altro, mentre l’uomo privilegia la relazione con l’oggetto, con l’uno e il molteplice, la relazione tra medesimi o fra simili, fra uomini, la relazione verticale e gerarchica”.

Prendere atto di ciò, avere coscienza della differenza può aiutare a vivere un’altra storia.

Nessuna indulgenza. Ma anche nessuna durezza o spietatezza. Anche perché è facile, come si dice, amare con furore, il difficile è odiare con tenerezza.


Alessandra Macci

Sabato Aliberti 1

I PIANI SOCIALI DI ZONA E LE POLITICHE DI INCLUSIONE SOCIALE A 4 ANNI DALL’ATTUAZIONE DELLA LEGGE 328/2000
CONVENGO DEL 21.01.2006 ORGANIZZATO DALL’AGENZIA TECNICA E DI COORDINAMENTO DEGLI SPORTELLI GAL A.D.A.T s.c.a.r.l.
PSEA 2003 PIC LEADER PLUS
POLITICHE E SERVIZI SOCIALI NEL CONTESTO DELLA RURALITA'
Sala Polifunzionale del Comune di Ricigliano


La legge 328/2000 ha ormai avviato un irreversibile processo di cambiamento che riguarda soprattutto le modalità di risposta ai bisogni sociali vecchi e nuovi.
La responsabilità di programmazione di tali risposte è stata attribuita dalla legge agli Enti Locali e sostenuta successivamente dalla modifica del titolo V della Costituzione che attribuisce una maggiore rilevanza alle autonomie delle Regioni.
L’attuale processo normativo del welfare è orientato sempre più ad avvicinare l’istituzione ai cittadini e questi ultimi alle istituzioni stesse.
I concetti di: GOVERNANCE, RECIPROCITA’, SUSSIDIARIETA’, PARTECIPAZIONE, SOLIDARIETA’ amplificano una prospettiva di programmazione delle politiche sociali che muove dal basso, dalle istituzioni più vicine ai cittadini e dai cittadini stessi mediante forme di collaborazione e partecipazione, associata e non, orientate alla progettazione di interventi che mirano al soddisfacimento dei bisogni sociali e di assistenza di una determinato territorio e della comunità che in esso vive.
La programmazione dal basso degli interventi e dei servizi costituisce l’unico modo per poter raccogliere meglio le istanze dei cittadini e i loro bisogni ponendosi a garanzia di un ordinamento pluralistico.
La direzione verso cui si sta andando, dunque, è la prossimità del livello decisionale a quello di attuazione che giocoforza implica una ripartizione delle gerarchie e delle competenze che si sposta verso quei soggetti ( ad esempio gli EE.LL.) più vicini ai cittadini e pertanto più vicini ai bisogni del territorio (SUSSIDIARIETA’ VERTICALE), ma implica anche che il cittadino, sia come singolo che attraverso i cosiddetti corpi intermedi (ad es. soggetti di terzo settore) deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni e partecipare nella definizione degli interventi che incidono sulle realtà sociali a lui più prossime.
E’ questo il significato del concetto di SUSSIDIARIETA’ ORIZZONTALE.
Ed è secondo questi principi ispiratori che la legge 328/2000, il Piano Sociale Nazionale e le Linee Guida regionali hanno avviato sostanziali cambiamenti nella struttura del welfare locale.
Tali cambiamenti, per brevità di analisi possiamo sintetizzarli in:

1) CAMBIAMENTI DI TIPO CULTURALE
2) CAMBIAMENTI DI TIPO ORGANIZZATIVO
3) CAMBIAMENTI NELLA GESTIONE

1) I CAMBIAMENTI DI TIPO CULTURALE riguardano il superamento dello stato assistenziale e la promozione di un welfare della partecipazione, passando da una cittadinanza selettiva rivolta solo ad alcune fasce della popolazione ad una cittadinanza più universalistica. La stessa produzione normativa è passata da leggi di tipo settoriale a veri e propri programmi di politiche integrate. I soggetti in difficoltà non sono più oggetto di politiche assistenzialistiche e passive ma ci si sta orientando verso una vera politica attiva di inclusione sociale delle categorie svantaggiate.

2) Per quanto riguarda i CAMBIAMENTI DI TIPO ORGANIZZATIVO, l’attuale legislazione ha definito in maniera più chiara il ruolo delle Regioni e delle Province riconoscendo le prime quali organismi deliberativi e le seconde come organismi a cui spetta il compito di coordinamento delle azioni sul territorio. La stessa normativa, sia nazionale che regionale, inoltre, ha introdotto una riorganizzazione dei territori provinciali in ambiti territoriali omogenei con competenze di programmazione (in Campania sono stati individuati 46 ambiti territoriali di cui 9 nella provincia di Salerno), attraverso lo strumento dei Piani di Zona e la costituzione degli Uffici di Piano, sovrapponendoli ai Distretti Sanitari e definendo al contempo i rapporti con le Aziende Sanitarie Locali, il mondo dell’Associazionismo e dei soggetti di Terzo Settore.

3) I CAMBIAMENTI NELLA GESTIONE, infine, consistono nella possibilità di pianificazione degli interventi da parte degli stessi attori del territorio, che costituiscono il Piano di Zona, lasciando ad essi la ricerca sul territorio stesso delle risorse professionali, strutturali e sociali con una conseguente maggiore concentrazione sulla programmazione e sulla erogazione dei contenuti. Programmare e gestire un servizio su di uno specifico territorio implica anche una concreta e fattiva collaborazione in equipe tra sociale e sanitario. E’ il lavoro in equipe di queste due aree che permette di programmare politiche territoriali ad alta integrazione socio-sanitaria.
Cambiano, dunque, insieme alla percezione del soggetto in difficoltà, anche l’organizzazione delle competenze e la modalità di gestione degli interventi.
Tuttavia, a quasi 5 anni dalla legge permangono ancora forti difficoltà legate soprattutto alla separazione dei poteri e delle funzioni, il POLITICO dal TECNICO, che comunque sono e devono essere complementari.
A quattro anni dalla applicazione della L. 328/2000 ancora non sembrano chiari i RUOLI degli uni e degli altri!!!
Fino ad oggi si è riusciti a coagulare l’attenzione solo attorno ai destinatari degli interventi ma contemporaneamente non sembra siano ben chiari gli obiettivi e la responsabilizzazione reciproca dei soggetti attuatori degli interventi.
Gli obiettivi del politico sono gli stessi del tecnico, del privato sociale e del privato?
Sono stati individuati livelli diversi di responsabilizzazione nell’ambito delle azioni che si vanno ad implementare a favore dei cittadini?
Vi è, dunque, ancora un modus operandi basato sull’emergenza, sui tempi, sulle scadenze, sulle previsioni, sulle verifiche che mina l’attuazione della piena integrazione tra SANITA’ E SOCIALE, e quindi l’ottimizzazione dell’utilizzo di strumenti quali ad esempio le modalità per l’affidamento dei servizi.
L’integrazione con il settore sanitario con il quale ultimamente con più frequenza ci si incontra e ci si confronta (ma più di frequente ci si scontra) deve mirare prima di tutto alla ricerca di una chiara definizione dei ruoli e dei compiti delle rispettive aree, nonché a delineare un assetto reticolare ed un funzionamento chiaro nei procedimenti che sia comparabile e verificabile sempre.
Molto spesso riteniamo che la partecipazione ad una comunità sia legata soprattutto ad aspetti formalizzati, mediante i quali ad ogni cittadino viene garantita l’appartenenza a quella comunità, popolo o nazione che sia. Questo modo di intendere la partecipazione non tiene conto di tutti quegli elementi simbolici relativi alla condivisione dei valori comuni che sono alla base del sentimento di appartenenza e dell’integrazione del soggetto nella Comunità. Il concetto di PARTECIPAZIONE, che per certi aspetti è legato a quello di SOLIDARIETA’ e RECIPROCITA’, passa solo attraverso uno stretto LEGAME tra il cittadino e la comunità o società in cui vive.
E’ questo legame - che da un punto di vista giuridico-formale viene definito CITTADINANZA - che costituisce il vero SENSO DI APPARTENENZA ad un popolo o ad una comunità poiché esso è tanto più forte quanto più sono condivisi e valori e i sentimenti comuni.
La condivisione dei valori e dei sentimenti, quindi il senso di appartenenza ad una determinata Comunità, costituiscano l’umus per l’avvio dei processi di PARTECIPAZIONE alla vita della comunità, poiché spingono la costituzione ed il consolidamento delle responsabilità individuali verso il benessere collettivo e quindi verso la comunità.
La realizzazione di un vero sistema di protezione sociale universalistico, che considera l’individuo nella sua totalità e capace di utilizzare tutte le risorse presenti su di un determinato territorio considerandole come dei potenziali capitali su cui attivare i processi di promozione della persona e della comunità , non può che basarsi sul concetto di partecipazione così come lo abbiamo appena inteso.
Questa strada sarà tanto più praticabile quanto più si è capaci di creare uno stretto collegamento tra universalità, accessibilità dei servizi e godimento dei diritti sociali.
In particolare diventano nodi strategici dell’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza gli elementi dell’INFORMAZIONE e dell’ACCESSIBILITA’ alle prestazioni mediante l’attivazione di una PORTA UNICA DI ACCESSO ai servizi socio-sanitari. Sarebbe opportuno nonché obbligatorio anche l’elaborazione di una CARTA DEI SERVIZI per i cittadini all’interno della quale sono definiti, oltre ai principi, alla tipologia e alle modalità di accesso ai servizi avviati, anche gli strumenti di verifica degli stessi da parte del cittadino, gli elementi che ne definiscono la qualità e le modalità di reclamo nel caso in cui non vengano soddisfatti in modo adeguato i bisogni dei cittadini.
Diventa fondamentale, quindi l’applicazione dei concetti già richiamati nella normativa:
L’INFORMAZIONE;
UNIVERSALITA’;
ACCESSIBILITA’;
ESIGIBILITA’;
DIRITTO DI CITTADINANZA

Paolo Esposito 1

IL BILANCIO SOCIALE SI E’ FERMATO AD EBOLI:
SFIDE ED OPPORTUNITA’ DI SVILUPPO NEGLI ENTI LOCALI DEL MEZZOGIORNO

A seguito di una analisi di benchmarking effettuata sui comuni che ad oggi, hanno realizzato un bilancio sociale, risulta che nel 2005 alcune Amministrazioni del Mezzogiorno hanno iniziato a muovere i primi passi sui temi della rendicontazione sociale; in particolare il Comune di Eboli risulta essere l’unica amministrazione del Mezzogiorno ad estendere il processo di rendicontazione dell’attività amministrativa a ben due mandati di governo: parafrasando un famoso romanzo di Levi è possibile affermare che il Bilancio Sociale si sia fermato ad Eboli, unica amministrazione del Sud a cimentarsi con forme di rendicontazione sociale.

Prima del 2005 la rendicontazione sociale nella parte sud del Paese era praticamente inesistente.

Vista l’impossibilità di analizzare tutti gli ottomilacentouno comuni d’Italia, le Province e le Regioni, l’analisi è stata ristretta ad un intorno limitato di indagine, i primi cento comuni d’Italia e gli ultimi cento comuni d’Italia, un campione statistico significativo secondo il criterio di densità demografica, attraverso la riclassificazione dei comuni in base al numero di abitanti.

Osservando i primi cento comuni, viene in evidenza che le uniche Amministrazioni (tra le prime dieci più grandi) a non avere mai sperimentato tappe, percorsi ed esperienze di rendicontazione sociale e di bilancio sociale in particolare, sono due comuni del Sud, Napoli e Bari.

Tra le prime cento Amministrazioni, solo il 20% di queste ha predisposto un bilancio sociale, rendendo conto, rendendo il conto a tre milioni di cittadini italiani; e soltanto quattro Amministrazione sono del Sud: il Comune di Palermo, il Comune di Messina, il Comune di Siracusa, il Comune di Lecce, per un totale di 1.145.708 di cittadini informati sulle azioni e sulle policies messe in campo dalle proprie amministrazioni.

Dall’analisi degli ultimi cento comuni d’Italia, si evidenzia il fatto che sebbene precisi disposti normativi come la L. 150/2000, impongano l’obbligo per le Amministrazioni di comunicare il proprio operato ai cittadini, nessuno di questi comuni ha predisposto forme e avviato fasi di sperimentazione o di realizzazione neanche parziale di rendicontazione sociale o di bilancio sociale.

Nessuno di questi Enti ha infatti nè predisposto Bilanci Sociali, ne tanto meno implementato il controllo di gestione o impiantato la contabilità economico-patrimoniale.

Sembra pertanto che il fine democratico della rendicontazione sociale, deve tenere conto anche dei costi da sostenere per la realizzazione dei processi e delle fasi della social accountability.

Notevoli poi sono gli ispessimenti e le callosità gestionali introdotte dai più recenti limiti al contenimento della spesa pubblica, che rendono più difficile per gli enti più piccoli l’individuazione di un panel di soluzioni possibili per sperimentare e promuovere forme di rendicontazione sociale.
Perciò sebbene gli abitanti di piccolissimi comuni paghino le tasse, contribuendo alla copertura e alla compartecipazione del gettito dei tributi, partecipando e sostenendo anche il welfare regionale e territoriale al pari degli abitanti di comuni di grandi dimensioni, non sono messi nelle condizioni di conoscere in che modo la loro compartecipazione al gettito tributario del Comune sia servito , per la copertura di quali servizi, a fronte di quali spese, per quali scelte dell’Amministrazione.

Sarebbe pertanto opportuno, anche nei piccoli comuni poter favorire attraverso il Bilancio Sociale, lo sviluppo di uno stile partecipativo in grado di costruire un rapporto di fiducia, partecipazione e di credibilità con i cittadini.

Vincenzo Moretti 2

Un uomo solo al comando?
Un uomo solo al comando. La sua maglia è bianco celeste. Il suo nome è Fausto Coppi.
La voce inconfondibile di Mario Ferretti annunciava in questo modo ai radioascoltatori di tutta Italia l’ennesima impresa del grande campione. Era un ciclismo d’altri tempi. Meno tecnologico. Più eroico. Con distacchi di decine di minuti e ordini di arrivo indipendenti dai controlli antidoping. Mentre nel mondo là fuori di politica si occupavano soprattutto i partiti.
I partiti producevano beni identitari, rappresentavano valori e ideali nei quali riconoscersi; definivano programmi e proponevano soluzioni che rispondevano innanzitutto alle necessità e alle aspettative dei ceti sociali di riferimento; selezionavano il personale di governo, dai comuni al Parlamento (le circoscrizioni da un versante e il Parlamento europeo dall’altro sono nate solo più avanti) e i funzionari che a diversi livelli rappresentavano il Paese nelle istituzioni internazionali.
Erano partiti guidati da grandi capi, quasi sempre autorevoli e altrettanto spesso autoritari, e da un gruppo dirigente ricco di personalità di primo piano e di norma assai rappresentativo.
Oggi i partiti si occupano essenzialmente, quando le circostanze e gli esiti elettorali lo consentono, di promuovere personale di governo; fanno assai più fatica a selezionare gruppi dirigenti data la scarsità di risorse ideali, programmatiche, economiche di cui solitamente possono disporre; hanno o aspirano ad avere però un capo, il leader, che si pensa, si propone, si rappresenta, si condanna a essere sempre più un uomo solo al comando.
C’è chi non fa fatica a sostenere che i destini della nazione dipendono da questi eroi più o meno solitari e chi se n’è convinto a tal punto da proporsi come il salvatore della Patria, l’Unto dal Signore.
Ma l’idea che la vicenda politica italiana possa sostanzialmente essere risolta dall’individuazione di un leader e dai rapporti tra leader attraversa, trovando autorevoli, affezionati, interessati supporter in tutti gli schieramenti.
A me non sembra una grande idea. Penso invece che il vento semplificatorio che soffia sulla politica finisce nel migliore dei casi per favorire una gigantesca opera di restyling del sistema in atto piuttosto che il processo di innovazione di cui il Paese ha bisogno; che al contrario tale processo deve coinvolgere uomini, regole, culture ed essere per questo profondo e consapevole; che occorre valorizzare la creatività e le differenze, rispondere alla gerarchia con la responsabilità, alla centralizzazione con la diffusione e il decentramento dei poteri.
Sta qui credo una questione davvero decisiva.
La mancanza di una classe dirigente, di un ceto intermedio forte, particolarmente acuta nel Mezzogiorno, ha infatti fortemente condizionato la storia del nostro Paese.
In un saggio su Napoli, il Sud, il federalismo, scritto assieme a Luca De Biase, veniva sottolineato come proprio a Napoli, per mano di Gaetano Filangieri, sia nata quella “Scienza della legislazione” destinata ad avere un peso decisivo nella formazione del pensiero e dei governi rivoluzionari in Francia e in Europa e che invece ben poca fortuna ha avuto in patria, dove ha prodotto quella rivoluzione del 1799 che, sono parole di Vincenzo Cuoco, “doveva formare la felicità di una nazione e intanto ha prodotto la sua ruina”.
Una rivoluzione fallita da un lato perché, come scrive ancora il grande storico napoletano, essa è stata per il popolo un dono e non un bisogno, e dall’altro perché anche allora, nonostante l’impegno di uomini come Genovesi, Pagano, lo stesso Filangieri, tra il “sopra” (il re, i nobili, l’alto clero) e il “sotto” (il popolo) c’era troppo poco “mezzo” (uomini di lettere, frati, preti, avvocati, giudici). E lo stesso Guido Dorso, sostenendo, circa un secolo e mezzo dopo, la necessità che si formassero cento uomini di ferro per dare finalmente soluzione ai problemi del Mezzogiorno d’Italia, non ha fatto altro che riproporre, da un diverso versante, la medesima questione.
Tutto questo riporta alla necessità di mettere l’accento sulla costruzione di quella società di mezzo (c’è un’assonanza perfino lessicale con l’ordine mezzano propugnato dal Genovesi), che continua a essere indispensabile per lo sviluppo economico e sociale delle diverse aree del Paese.
Certo, la costruzione di una nuova classe dirigente è un processo più impegnativo del ricorso alle capacità taumaturgiche del leader ma, come è noto, problemi complessi richiedono necessariamente soluzioni complesse.
In un sistema democratico, non c’è un Cesare al quale dare quel che è di Cesare, anche perché di suo Cesare non ha niente.
Da queste parti nessuna suggestione plebiscitaria, dunque, ma individuazione e selezione paziente dei futuri diversi che con le nostre azioni individuali e collettive contribuiamo a rendere più o meno possibili.
Continuiamo a pensare infatti che una classe dirigente valga più di un leader. E che in ogni caso per fare il leader siano necessari gruppi dirigenti autorevoli e diffusi con i quali confrontarsi e dialogare.

martedì, aprile 18, 2006

Antonio Carratù 3


1. Un pò di numeri sulla classe dirigente.
Iniziamo dai due che si sono sfidati per la poltrona di premier. Romano Prodi avrà 71 anni quando concluderà il suo mandato (si spera!!!). Silvio Berlusconi se fosse stato rieletto avrebbe avuto 74 anni alla fine del suo mandato. il Presidente Ciampi ne ha 85 e si parla di Ciampi bis, per fortuna sembra che non accetterà il prossimo mandato. Giulio Andreotti ha 87 anni e continua a sedere al Senato insieme ad altri sei politici di cui il più giovane è Francesco Cossiga 77 anni. Più in generale il 5% dei politici italiani ha meno di 40 anni. Davanti a tale realtà mi chiedo: sono loro (la classe dirigente)che attacati alla poltrona e in generale al potere non permettono a noi giovani di partecipare alla cosa pubblica, oppure siamo noi che non riusciamo ad esprime la forza necessaria per espellere dal sistema tali personaggi?
In entrambi i casi si pone un problema serio, ma puntualmente eluso nei diversi dibattiti, forse perchè mal comune mezzo gaudio?

2. L'infedele di Gad Lerner
Lo sguardo acuto di Gad Lerner sui temi del giorno per gli utenti di Virgilio News.
Con la certificazione della vittoria elettorale dell’Unione, le trasmissioni tv invase dai politici (quanto ha ragione Magris! Sembra che non abbiano altro da fare che presidiare quotidianamente il teleschermo!) ripropongono una modalità classica: quando parlano quelli del centrosinistra, dedicano la più parte del tempo a disposizione all’esame di problemi interni alla coalizione. In pratica quelli dell’Unione sono chiamati a parlare di disunione, un capolavoro di masochismo solo apparente. Perché i nostri politici non sono (quasi) mai masochisti. Solo seguono criteri di convenienza diversi da quelli che dichiarano.
Facciamo un esempio: rifiutando di fare liste dell’Ulivo al Senato, i leader di Ds e Margherita hanno buttato via una ventina di seggi che gli avrebbero garantito pure a Palazzo Madama una salda maggioranza. Errore gravissimo? Nessuno di loro lo riconosce, perché in realtà giudicherebbero errore più grave ancora la rinuncia a pesarsi come singolo partito in una logica di ripartizione delle quote di potere.
Prima delle elezioni predicavano “subito il Partito democratico!”, adesso sono lì ad architettare gruppi parlamentari federati e doppi incarichi per non bere l’amaro calice. Spiace dire che l’avevamo previsto e che per fare passi avanti occorrerà uno strappo all’interno di questi sempiterni gruppi dirigenti.

domenica, aprile 16, 2006

Osvaldo Cammarota 1


I tre grappoli di quesiti posti da Enzo Moretti sono strettamente interconnessi e interdipendenti.
I leader (di ogni colore) sono nudi perché è in crisi il leaderismo. Esso è un modello anacronistico e inefficace per governare la società ”densa e complessa” del nostro tempo.
Man mano che la crisi del leaderismo si manifesta, si scopre sempre più il conservatorismo dei leader e la loro disperata necessità di “potere assoluto”, indispensabile per garantire equilibri nel “mercato” della politica. E’ auspicabile che, almeno i leader del centrosinistra, sviluppino la capacità di rimettersi al servizio delle comunità piuttosto che rimanere in una funzione di servizio per la conservazione di equilibri politici sempre più precari, costosi e inefficaci.
Più delle sorti dei leader (e dei loro vassali, valvassori e valvassini) mi appassiona l’idea di contribuire alla ricerca e alla promozione di una classe dirigente diffusa, capace per meriti e competenze, di rispondere finalmente alla domanda di partecipazione della società al processo di formazione e attuazione delle scelte politiche e amministrative. Una ricerca difficile, se si considera la diaspora di cervelli causata dallo sgretolamento della funzione dei partiti e dalla loro crisi di rappresentanza.
Per ogni ricerca occorre un attrezzo. A me sembra adeguata l’Associazione per il Partito Democratico costituitasi in Lombardia e la scelta di svilupparsi su basi regionali.
Il 7 aprile 39 persone hanno costituito il gruppo promotore dell’Associazione per il Partito Democratico in Campania (vedi documento fondativo e firmatari). Mi sembra un buon laboratorio, un luogo dove è possibile passare dal “dire” al “fare” almeno per dare voce e rappresentanza a quel diffuso popolo di innovatori che nel centrosinistra e nella società italiana, sentono il bisogno di uscire dall’attuale condizione di solitudine ed emarginazione.

venerdì, aprile 14, 2006

Amico Antenucci 1


Lo scirocco e il maestrale
Insieme al mio amico Zizzo, abbiamo lasciato la sede dell’Ente nel quale lavoro, verso le 18,30. A dire il vero avevo abbandonato, incollato ad internet ed al televisore anche Vincenzo, mio amico, pregandolo (prima che partisse per Napoli), di tenermi aggiornato su eventuali spostamenti significativi degli exit pool, in quanto sino alle 18,30, il vantaggio dell’Unione era, a detta dei commentatori, stabile e non erano previste particolari sorprese.
Vincenzo era un po’ perplesso sui dati che ci venivano man mano comunicati, per quanto positivi, ed io forse lo ero anche di più, nonostante ambedue avevamo pronosticato (auspicato) un vantaggio rilevante nei confronti degli avversari.
Fatto sta che io e con me il mio amico Zizzo, avevamo voglia di precipitarci in piazza Santissimi Apostoli, e magari dopo in piazza del Popolo, per accedere immediatamente alla festa, quasi ad esorcizzare il tempo che non passava, e che sarebbe passato in forma impazzita.
Quando siamo usciti, ciò che mi metteva di malumore era lo scirocco, il vento caldo che porta la sabbia. Non sopporto lo scirocco che, in quanto evento naturale, è doveroso sopportare: ma tant’è!. Quel vento che si appiccica al corpo, fiacca la mente, mi spinge verso pensieri negativi.
Fatto sta che più si consolidava il vento più i dati che pervenivano nella piazza mi mettevano di cattivo umore. Ad un certo punto il Polo aveva superato l’Unione, e le telefonate con Vincenzo, che intanto viaggiava verso Napoli, erano oggetto di preoccupazione assoluta, se non di rassegnazione, nonostante egli tentasse di rassicurarmi. I volti ed i commenti della gente, che con tante speranze si era ritrovata in piazza, mi gettavano nello scoramento più assoluto. Ogni tanto si percepiva un applauso, per qualche risultato parziale che si modificava a nostro favore, ma di Prodi o di qualcuno dell’Unione, che avevano preventivato un comizio alle 18,30, poi rimandato alle 19,30, nessuna traccia, ed eravamo intorno a mezzanotte.
Io ed il mio amico Zizzo nel frattempo, in tutto quel tempo, tra una telefonata e l’altra, tra una notizia ed una chiacchiera con astanti, ci portavamo da un bar all’altro: il vino e’ stata la bevanda consumata.
Continuavo a domandarmi perché, aldilà dei dati poco rassicuranti di quel momento, non venisse nessuno dei nostri ad informarci. Ne parlavo anche criticamente con alcuni compagni. Come se avesse sentito, eravamo ormai verso l’una, ed avevo ormai perso ogni collegamento con Vincenzo, Romano Prodi, lui solo, viene a scusarsi per il ritardo con il quale si presentava, ma ci spiegava che non aveva informazioni probanti, che non capiva cosa stesse accadendo, e che ci saremmo rivisti più tardi.
Immaginate cosa ha significato, per gente di sinistra che sino a qualche ora prima aveva pensato di mandare a casa Berlusconi, con diversi punti di vantaggio, sentirsi a quel punto così insicuri.
Di vino ormai ne avevamo bevuto abbastanza, ma non eravamo ancora soddisfatti, soprattutto perché mi sembrava più buono, in ragione probabilmente del modificarsi della temperatura; avevo la sensazione che il vento avesse cambiato direzione: era fresco, non era più di scirocco, era di maestrale.
Cominciavo a trovare in me un diverso umore, non ascrivibile al vino, una condizione gradevole.
Da li a poco, erano ormai circa le 4,00, gli uomini dell’Unione sono comparsi ad annunciarci la buona novella. E’ stata un’esplosione di gioia e di canti straordinaria, qualcosa che va oltre la politica, che sta dentro la ricerca comune a tutti, dico tutti, di (ri)trovare il senso della giustizia sociale.
Dopo che la festa si è consumata ed io ed il mio amico Zizzo, abbiamo bevuto un ultimo bicchiere, ci siamo trovati con circa una quarantina di ragazzi, che osservati dalla polizia, quasi vicino alla casa privata di Berlusconi (palazzo Grazioli), inneggiavano alla vittoria, con qualche sberleffo nei confronti del premier. Ho saltato insieme a loro ed ho anche tentato di insegnargli una canto religioso che più o meno fa così: “ Per i miseri implora il perdono, per i deboli implora la pietà…”. Niente da fare, non sono riuscito ad insegnarla, non volevano sentire ed hanno alzato il coro: “ O partigiano portami via, …..”.
Ho cantato come un matto.
Non mi piace bere quando c’è lo scirocco.

Rosaria De Marco 1


9:09 AM, April 14, 2006 Rosaria De Marco ha detto
Aggiungo (scritte in nero) alcune riflessioni alle tue.

IL LEADER E' NUDO?
Il leader e la corte.

Alcune riflessioni bollenti dopo una notte angosciante – esaltante nel corso di un mattino non ancora sereno in un paese sulla lama di un coltello.
1. Se anche in Senato l’Unione ha potuto conquistare, seppure per un soffio, la maggioranza, lo si deve non solo al voto degli italiani all’estero, ma anche al voto degli elettori del Sud.
Diversamente da quello del Centro, dove decenni di buon governo rappresentano, tra alti e bassi, un dato consolidato di riferimento, nel Sud si tratta di un esito niente affatto scontato, perché se è vero che Berlusconi si è particolarmente distinto per la propria incapacità (non volontà) di affrontare seriamente almeno alcuni dei problemi più importanti di questa parte del Paese, è altrettanto vero che da molto tempo la questione meridionale non c’è più. Dissolta più che risolta. Colpevolmente lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Probabilmente, si tratta di un effetto (indesiderato) della ideologia “della normalità”. Inizialmente con la formula una società normale è stato indicato un obiettivo preliminare, minimo ma di grande presa perché in grado di aprire su una nuova prospettiva politica basata sull’emersione dalla emergenza, da quella percezione di sé “differenziale” che ha intrappolato il nostro Sud per secoli. L’idea sottesa era: affrontiamo le questioni come problemi non come destino. Ciò che è successo, invece, è quello che è sotto gli occhi di tutti oggi. Nessuna (o, comunque insufficiente) normalità, piuttosto una normalizzazione, nelle cui pieghe, come sempre, prosperano illegalità, in cultura, asocialità.
Le ragioni? Tante e naturalmente non tutte fuori dal Sud.
Ad esempio la classe dirigente meridionale non si pensa abbastanza in quanto tale e non dimostra una sufficiente capacità di innovazione sul terreno delle cose da fare e delle modalità con le quali farle, come vedremo anche più avanti; le donne e gli uomini del Sud fanno fatica ad assumere fino in fondo i doveri e i diritti della cittadinanza, finiscono troppo spesso col delegare, si comportano troppo spesso come sudditi invece che come cittadini.
In un intervento di donneSudonne durante l’incontro con la Sindaca del luglio scorso, la invitammo a sostenere a livello nazionale l’istituzione del Reddito Minimo di Inserimento (per tutti i cittadini privi o con reddito insufficiente) quale riconoscimento del diritto alla libertà dal bisogno; questo riconoscimento cambia di segno il rapporto assistenziale - soggetto a discrezionalità, clientele, emergenze sociali, interruzioni o riduzioni di finanziamenti ecc.- trasformandolo in un patto solidale di reciprocità e in progetto condiviso. L’affermazione di questo diritto soggettivo implica l’assunzione di responsabilità, di dovere, anche nel cittadino che percepisce il RMI che viene impegnato al rispetto delle condizioni previste (solo per fare un esempio, in Danimarca i disoccupati di lungo periodo hanno l’obbligo di accettare il lavoro offerto dal collocamento pena la progressiva riduzione del sussidio). Insistevamo sull’adozione del RMI su scala nazionale perché questo ciò significa che lo Stato assume come proprio il problema del disagio (dei singoli come di intere aree del proprio territorio) e fa riferimento ad un modello secondo il quale uno Stato migliora quando migliora la qualità della vita di tutti i suoi cittadini. Viene così sottratto il trattamento di alcune situazioni difficili della nostra città (e regione) alle logiche dell’eccezionalità e dell’emergenza, per definizione transitorie.
Obiettivo: riduzione dell’”eccezionalità” del caso Napoli mediante un provvedimento generale di gestione statale del disagio con conseguente migliore disponibilità di risorse per interventi specifici.
La Sindaca sorrise e ci raccontò dei tagli appena decisi dal governo.

Ciò detto, resta il fatto che le responsabilità delle classi dirigenti nazionali sono grandi.
Riuscirà il governo Prodi a ridare una dimensione politica alla questione meridionale e dunque a ridare un’identità al nostro Paese? Sta qui a nostro avviso uno snodo importante per il nostro futuro. Sicuramente più di un ulteriore dibattito su come si dovrà chiamare il nuovo contenitore partito del centro sinistra.
Da queste parti, continuiamo a ritenere che la Cosa sia più importante del Nome della Cosa. Che i contenuti siano più importanti dei contenitori. Che i programmi di governo e la coerenza con la quale si portano avanti siano, per tutti, il vero banco di prova.
Come anche i metodi con i quali si portano avanti: non esistono, o per meglio dire, non resistono buoni risultati se perseguito con metodi reprensibili e non solo per motivi etici, ma anche perché, pragmaticamente, si diventa ricattabili.

2. Abruzzo 53.2; Basilicata 60.4; Calabria 56.8; Campania 49.6; Molise 50.5; Puglia 47.9; Sardegna 50.9; Sicilia 40.5: sono i dati relativi alle percentuali conseguite dall’Unione nelle regioni meridionali.
Spicca, in negativo, il dato della Campania, terz’ultima. (per ragioni diverse, i dati della Puglia e della Sicilia erano in fondo prevedibili: la particolare forza del blocco moderato e le note commistioni in Sicilia, il valore aggiunto portato da Vendola e l’alto tasso di astensionismo nelle recenti elezioni regionali in Puglia, ecc).
In Campania, neanche un anno dopo le elezioni regionali, va male nonostante Bassolino, De Mita, Mancino, ecc. Ci sarà un giudizio degli elettori sulla capacità e sulle modalità di governo a livello regionale? Sui criteri di formazione delle liste? Sui livelli di civiltà e di sicurezza delle nostre vite e delle nostre città? Ci sarà qualche riflessione da fare anche in riferimento alle prossime elezioni al comune di Napoli?
Su questi interrogativi non ho che certezze minime, speranze più che altro. Mi piacerebbe leggere in questi risultati l’esercizio di un giudizio critico, maturo. Forse non è possibile, in questo caso meno che mai, una generalizzazione, tuttavia va considerato al riguardo il fenomeno Rossi Doria che sta coagulando appunto quell’interesse critico (non ostile) anche proprio sulle “procedure” della politica.

3. Abruzzo 18,4; Basilicata 19,9; Calabria 14,4; Campania 14,1; Puglia 15,6; Sardegna 17,2; Sicilia 11,4: questi sono invece i risultati conseguiti dai DS nel Sud (in Molise è stata presentata la lista dell’Ulivo anche alla Camera).
Qui l'urgenza di affrontare la questione Campania, dopo 15 anni di bassolinismo, appare ancora più evidente. Per quanto ci riguarda continuiamo a ritenere che molte mani e molte teste siano meglio di una. Che occorre privilegiare le capacità e le competenze piuttosto che le appartenenze. Che una classe dirigente sia meglio di un leader, per quanto autorevole possa essere.
Si può avviare finalmente una riflessione seria intorno a questo punto?
Sembrerebbe essere un’esigenza avvertita solo dall’ “esterno” o dagli emarginati dalle aree e/o gruppi dominanti. Il dramma è che al punto in cui siamo l’unica possibilità sembra essere una sanguinosa redde rationem, sicuramente non una riflessione politica! Del resto, avrai sentito anche tu alla festa in Piazza Matteotti parlare di “grande vittoria” di “chiara conferma” degli elettori!

giovedì, aprile 13, 2006

Salvatore Pirozzi 1


Concordo con molte cose che dici, in particolare sono contento quando qualcuno della parrocchia - senza offesa - trova il coraggio di parlare chiaramente del parroco. moltissimi amici miei mi parlano criticamente in privato, titubano nell'assunzione di redsponsabilità. sento aria fresca nelle tue parole e sento il vento della speranza che non tutto è chiuso. sono d'accordo che una classe dirigente è meglio di un capo, mi sembra la questione principale in una realtà in cui i figli si chiamano cozzolino e cardillo (non so come la pensi), eredi senza alcuna forza e senza alcuna cultura politica che non sia il palazzo.
ma penso pure che la questione è più ampia e che , per esprimermi con uno slogan, la democrazia elitaria, mercantile, fondata sullo scambio e l'aggregazione, è in crisi e che è il momento di risperimentare la democrazia attraverso mille laboratori di democrazia deliberativa. è faticoso anche perchè non ci sono modelli alle spelle, ma solo, appunto, esperimenti. se come dice Sen la democrazia è apprendimento, questo è il momento, credo che con Borrelli organizzerò una giornata ristretta e una più larga su questi temi forse con Pellizoni, anzi la mia speranza sarebbe Lanzara, un mito per me. penso che la competenza necessaria oggi è proprio la capacità negativa e credo che una nuova classe dirigenre vada cercata e costruita - c'è un problema di leaderhip importante, nel senso di una leadership che sia capace di farsi carico di una mission cognitiva - e temo che nel tuo vecchio partito non ci sia granchè. e neanche nella società civile parapolitica. questo è uno dei motivi della mia speranza per marcorossidoria. non scherzo, ma penso che i maestri di strada, non tutti, e molti loro compagni di strada siano un bacino.

Midaro 1


Nella mia famiglia non c’è una tradizione o una cultura politica. Nell’esprimere un voto sento di non avere pre-giudizi. In compenso sono un’idealista, una che scioccamente si definisce “l’ultima dei romantici” perché ho dei valori in cui credo per davvero. Il mio approccio alla politica è emotivo-istintivo. Non ho un’ideale cui tener fede, il che mi rende libera di votare ogni volta per la scelta che ritengo più giusta. Ho votato due volte per le politiche. La prima volta, Fini. Avevo detestato la campagna politica svolta dalla sinistra e preferivo, pur non apprezzando ne stimando Berlusconi, che vincesse il centro-destra perché credevo che la sinistra meritassedi perdere. All’interno del centro-destra, Fini era il politico che stimavo di più. Avevo votato, però per un partito che non mi rappresentava e nel quale non potevo riconoscermi. In più in questi anni è scemata anche la mia stima verso il politico in quanto non ho apprezzato il suo esser devoto alla poltrona. Ho seguito con interesse la campagna elettorale da poco conclusa e anche stavolta poche cose mi hanno colpito. Al momento di fare una scelta, ho deciso di votare per l’unico partito che ha trattato un tema secondo me di grande rilevanza: il mercato del lavoro attuale e in particolar modo il precariato. Ho votato per Rifondazione Comunista e la cosa -malgrado terzi pareri- non mi fa sentire una folle né tanto meno una che non conosce la coerenza. Non ho espresso un voto legato alla mia storia, al mio passato, a dei valori culturali, ho votato chi è riuscito ad interessarmi e coinvolgermi, chi ha trattato temi che mi interessano e l’ho premiato col mio voto. Non nutro grandi speranze nell’attuale coalizione di sinistra, ma spero che si renda presto conto che è arrivato il momento di essere operativa. A Rutelli consiglierei di fare coalizioni per affinità e non per possibilità di vittoria e ai DS consiglierei di osare di più. Non tutti votano per grandi ideologie, perché fedeli ad passato nel quale riconoscersi. Non tutti votano perché si sentono di destra o di sinistra. C’è anche chi guarda al partito, al leader e soprattutto alle idee.
Vorrei aggiungere un ulteriore commento. Ho letto con interesse quanto detto sulla scomparsa della questione meridionale. C’è da preoccuparsi se non viene neppure più usata per “commuovere” l’elettorato meridionale. Oppure c’è da tirarne un sospiro di sollievo. Per quanto affrontato in fase pre-elettorale è stato sempre dimenticato al momento di prendere delle decisioni politiche. Possiamo sperare che visto che si è parlato di meno si faccia di più? Secondo me basterebbe affrontarlo con raziocinio e senza falsi moralismi per avere dei passi avanti; ma soprattutto, come una questione di Stato piuttosto che come un’opera “umanitaria”.

Antonio Carratù 2


7:26 AM, April 13, 2006 Antono Carratù ha detto
Penso che per il nostro dibattito è utile riportare quanto ha scritto Ezio Mauro su Repubblica di ieri, per chi non ha letto l'articolo eccolo di seguito:
DUNQUE, cos'è successo? Per capirlo, guardiamo prima di tutto alla sostanza delle cose: se si confermeranno i risultati diffusi dal Viminale, Silvio Berlusconi non sarà più Capo del governo, e dovrà scendere le scale di Palazzo Chigi dov'era salito trionfante cinque anni fa. Non andrà nemmeno al Quirinale, dove pensava di trasferirsi per sette lunghi anni in caso di vittoria del Polo, dominando dal Colle tutta la visuale della politica italiana. La stagione del Cavaliere alla guida del Paese sembra dunque finita, mentre comincia la seconda era Prodi, con una prospettiva di governo esile nei numeri, faticosa nell'eterogeneità della coalizione, debole e incerta nella sua cultura politica: e tuttavia pienamente legittima. Perché il centrosinistra - stando ai numeri fino ad oggi ufficiali - alla fine ha vinto, dopo la battaglia elettorale più difficile di tutta la storia repubblicana.
Diciamo subito che se nell'ipotesi notturna di un pareggio (una Camera alla destra, l'altra alla sinistra) si discuteva del diritto della sinistra di provare a governare, nel momento in cui ha conquistato la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento l'Unione ha il dovere di provarci. Un dovere costituzionale, ma anche morale, perché Prodi si è presentato agli elettori chiedendo di mandare a casa Berlusconi e di cambiare governo, per aiutare l'Italia a ripartire voltando pagina.
Siamo tutti sotto l'effetto di una doccia scozzese che non ha precedenti: prima il tam tam continuo che nel silenzio elettorale dà un vantaggio molto netto all'Unione, poi i primi exit poll che annunciano una vittoria sicura, quindi la correzione di rotta, le regioni conquistate un anno fa dalla sinistra che se ne vanno a destra, il Cavaliere che recupera, l'annuncio della sua vittoria al Senato per un voto, una vittoria che sembra estendersi anche alla Camera: infine il rovesciamento, prima parziale, poi totale, fino alla festa notturna per la vittoria, già insidiata dall'annuncio berlusconiano del ricorso per la verifica delle schede.
La moderna religione dei sondaggi si è svelata per quel che è, una superstizione a bassa tecnologia che punta a soggiogare la politica, determinandola o sostituendola, mentre compulsa il popolo invece di mobilitare i cittadini.
Squarciato il velo della falsa profezia, emerge la doppia realtà di un Paese spaccato a metà, irriducibile nelle sue divisioni frutto di culture divaricate, interessi legittimi separati e distinti, valori contrapposti e inconciliabili. Non è un risultato da poco per il centrosinistra prevalere nel discorso pubblico di un Paese sordo a turno per metà, dove oggettivamente le parole d'ordine della solidarietà, dell'uguaglianza, dei diritti e della giustizia fanno più fatica a passare, trasversali come sono nella loro natura politica. E invece l'Unione ha infine prevalso, di misura strettissima e tuttavia chiara, come se la saggezza superstite e residua di un Paese stremato vedesse nella sinistra più che nella destra l'unica possibilità di tenere insieme le due Italie.
Perché allora questo sentimento diffuso di vittoria mutilata, con un amaro sapore del successo? A mio parere la risposta è chiara: per la scoperta che anche nella vittoria dell'Ulivo Berlusconi "morde" su metà del Paese. C'è una metà dell'Italia che dopo dodici anni di avventura, dopo cinque di malgoverno, dopo una campagna elettorale esagerata e forsennata (che dovrebbe spaventare i moderati) sceglie ancora Berlusconi, e non importa se il sogno del '94 è oggi bucato. Vuole Berlusconi non più per ciò che promette, ma per ciò che è, ormai apertamente svelato. Sceglie la sua natura nel momento in cui più diventa radicale, la sua proposta quando coincide con la sua figura e poco più, la sua politica quando è rivoluzionaria e tecnicamente sovversiva ad ogni regola, la sua figura come paradigma ingigantito e obbligatorio di una moderna destra.
È senz'altro possibile, anzi sicuro, che una parte di questi elettori voti Berlusconi per i suoi interessi, seguendo l'invito del Cavaliere a badare al portafoglio. Ma un'altra parte, con ogni evidenza, vota Berlusconi "contro" i suoi interessi, visti i cattivi risultati del suo governo, l'incapacità di fare le riforme, la crescita zero. E infine - ed è ciò che più conta - c'è un pezzo d'Italia che vota Berlusconi comunque e a dispetto di chiunque, per vero e proprio ideologismo. Berlusconi come ultima ideologia, anzi, come ideologia che cammina. Solo così si spiega il recupero impetuoso del Cavaliere: nella sua capacità di trasformare la sua base sociale fatta di piccola borghesia antiliberale, di proprietà minuta, larga e diffusa, di intellettualità radicale e "rivoluzionaria" non solo in un blocco sociale, ma in una specie di vera e propria nuova "classe", pronta a muoversi omogeneamente in politica. Se quella classe oltre al portafoglio ha un'anima, come ha, Berlusconi ne è oggi il signore incontrastato. E non solo. Paradossalmente, nel momento in cui finisce di essere premier, Berlusconi comincia ad essere una politica.
L'adesione ideologica al berlusconismo, il dirsi e il diventare di destra attraverso Berlusconi, consente al Cavaliere l'uso politico più libero e spregiudicato della sua base di manovra. Così ieri con una mano ha delegittimato e post-datato la vittoria della sinistra, alludendo a piccoli brogli, pasticci nei seggi da verificare, con una manovra d'interdizione. E con l'altra mano ha lanciato a sorpresa la proposta di una grande coalizione capace di governare la divisione italiana, anche con la sua personale fuoruscita dall'orizzonte del governo.
Per l'alterità dei due schieramenti nella scena italiana, e per i toni dell'ultima campagna, è una sorta di compromesso storico berlusconiano, inedito, suggestivo nell'impianto europeo, ma poco credibile nel tradimento definitivo di ogni spirito maggioritario, ma soprattutto del vero spirito del Cavaliere. La destra ha vinto nel 2001 e ha governato. Se la sinistra ha vinto, è giusto che governi, o almeno che ci provi. Così dicono le regole, che hanno però anche un corollario: se Berlusconi ha perso, è giusto che vada all'opposizione, dismetta il ruolo di deus ex machina, passi la mano. Ieri, la sua proposta sembrava il tentativo ansioso e troppo precipitoso di tenere comunque in mano il mazzo delle carte e fare il gioco, almeno dentro la destra: dove già si smarca la Lega.
Per governare davvero, e non provarci soltanto, che cosa serve alla sinistra italiana? Verrebbe da rispondere: ciò che non ha (e dunque ciò che gli elettori non hanno potuto trovare nei seggi): un'identità chiara e risolta, quindi una coscienza di sé. La controprova è nel buon risultato dei partiti con una ragione sociale netta, come Rifondazione, ma anche come i Verdi e i Comunisti italiani, persino Di Pietro. I guai cominciano con la Margherita, che non vede l'onda lunga, e soprattutto con i Ds, rimpiccioliti nelle ambizioni al 17,5 per cento, dopo essere stati l'asse centrale della coalizione per cinque anni. Verrebbe da dire: se per troppo tempo non sai chi sei, prima o poi gli elettori se ne accorgono. Dove si va con quel 17, dove si va col 10,7 della Margherita? Da nessuna parte, com'è evidente.
Se prima il partito democratico era un'opportunità per Rutelli e Fassino, oggi è una necessità. Guai però se lo concepiscono come un assemblaggio di apparati, un piccolo meccano di classe dirigenti e un dòmino organizzativo. Deve avere e trasmettere un'impronta di modernità europea, di apertura e di inclusione (a partire dai socialisti, dai radicali, dalla società), di identità nuova, di necessità riformista, di cultura di governo, forte e radicale. Deve essere l'occasione per rinnovare le classi dirigenti, a partire dal vertice, senza paure e senza riserve. Insomma, deve essere una cosa nuova, da fare subito, credendoci, senza furbizie. Solo così, cambiando la natura della sinistra, può cambiare il suo destino. E solo così può funzionare da perno e baricentro per il governo Prodi in questa stagione complicata.
Tutto ciò dà a Prodi un compito in più, un compito doppio. Deve provare a governare, in una situazione difficilissima, non solo per i numeri, ma per l'eterogeneità di una coalizione da trasformare in forza di governo, e per la debolezza di una cultura riformista ancora incapace di dispiegarsi. Ma nello stesso tempo, deve essere alla testa di questo processo di fondazione di un nuovo Ulivo, che si chiamerà partito democratico. Il Professore sa che la sua è una vittoria debole, fragile. Se parte per galleggiare, va a fondo. Ha bisogno di strappare, di pensare in grande. Cominci dal suo governo, indicando subito i ministri, fuori dai giochi e dai condizionamenti, sentendo i partiti, ma senza farsi ingabbiare. La sua debolezza è la sua forza: la usi, come se il partito democratico ci fosse già.
La vera risposta alla mossa berlusconiana della grande coalizione sta nella capacità di Prodi di parlare al Paese, a tutto il Paese. Ci provi, cominciando da quel Nord che per la prima volta nella storia italiana si contrappone politicamente al Centro, diventando il nuovo scrigno ideologico del Cavaliere, le regioni berlusconiane contro le regioni rosse, con la destra che acquista un territorio, espropriando la Lega. L'altra risposta a Berlusconi, sta nella capacità del centrosinistra di indicare una soluzione limpida ma condivisibile per il Quirinale. Oggi il nome possibile è uno solo, quello di Carlo Azeglio Ciampi, che vuole lasciare il Colle ma che rappresenta un punto d'incontro forte e sicuro. Da qui bisogna partire.
Come si vede, e per fortuna, dopo il voto la parola torna alla politica. La sinistra mostri di averne una, dopo l'antiberlusconismo. La politica è l'unico modo per far vivere un governo Prodi, se nascerà dopo la vittoria. Ed è anche l'unico modo per battere davvero Berlusconi, dopo averlo disarcionato.

mercoledì, aprile 12, 2006

Maria Antonietta Palma 1

Mi aspettavo un risultato del genere!
Nel periodo precedente alle elezioni ho potuto notare che molte persone non hanno una propria convinzione politica e si lasciano "portare dal vento" cercando di districarsi tra le tante promesse fatte dall'una e dall'altra parte. Per non parlare di coloro che apertamente esprimono di votare per la coalizione che più "va di moda" e poi votano per l'altra parte solo per la mancanza di coraggio e motivazione nel sostenere le proprie convinzioni politiche.
Sono una convinta Anti-Berlusca (stanca di essere presa in giro, stanca di un sorriso stampato che sembra volermi dire che sono al ignorante)ho grossi dubbi che la sinistra riuscirà a governare nella giusta direzione, credo piuttosto che ben presto assisteremo al sorgere di incomprensioni nascoste che porteranno all'orlo di una crisi. Superarla sarà la dura prova da sostenere.

Antonio Fresa 1


Quante idee possono nascere in una nottata passata a guardare un mondo che vive e si ciba di dati che non vengono! Quante idee o incubi possono nascere ascoltando le parole di tanti che dovrebbero tacere perché parlano di qualcosa di ignoto! Così non sarà del tutto sconsiderato calarsi in un ragionamento ancora in fieri (aspetto che i miei dati siano certi).
Potranno un giorno queste elezioni essere considerate l’inizio di una nuova era?
Si chiude a breve il settennato di Ciampi, il presidente che ha sempre parlato dell’unità nazionale e della necessità di costruire una memoria condivisa.
Quando due schieramenti sono separati da un così scarso distacco, è lecito pensare che:
a sinistra, si deve eliminare un poco di puzza sotto il naso e smettere di credere che tutti i voti che vanno a destra siano frutto di interesse (nel senso più nefasto), scarsa conoscenza della storia o altro o altro?
a destra, si deve smettere di usare categorie anacronistiche (comunisti) o surreali (ciglioni) e rivalutare il ruolo più nobile della politica e dei politici..
Fascisti ed antifascisti: questo è il peso da lasciarsi alle spalle per pensare, davvero, ad un sistema bipolare in cui non si vince con i grandi numeri, ma anche con un solo voto.
Basta, inoltre, con l’ossessione di/su Berlusconi.
Dovremmo ormai comprendere ciò che egli rappresenta come politico, anche se sui generis, e non passare la nostra vita ad indagare sulla sua. Per quanto riguarda le regioni meridionali, temo che vadano fatti profondi distinguo. La scarsa attenzione al Meridione è un alibi delle amministrazioni locali o una colpa del governo centrale? In altri termini, si può continuare ad essere un elettore di sinistra vivendo in Campania e osservando le cose della Campania? Il dato della Basilicata mi sembra assai significativo di una possibilità diversa.

martedì, aprile 11, 2006

Antonio Carratù 1


Un primo punto che bisogna sottolineare è la vittoria seppure a fatica e per un soffio del centro sinistra. Un risultato secondo me tutt’altro che scontato e comunque una prova di forza vista la campagna elettorale e il modo di concepire la politica di molti italiani. Si esprime un voto basato sul pre-giudizio/appartenenza più che sui diritti e doveri dei cittadini, un voto di valore più che di analisi concreta degli avvenimenti.
Il leader della CDL l’ha capito e ha investito molto o tutto sul voto di valore, tanto è vero che ha recuperato molti voti nell’ultima settimana spargendo paure, incertezze e ansie.
1. Riguardo alla questione meridionale, penso che oggi, come dicono in molti, ci sono tanti Sud e parlare al singolare non sia rappresentativo della realtà. Secondo me bisogna legare la questione dei Sud all’intero Paese, ormai è un problema del sistema Italia e non di una parte di tale sistema. Detto questo, però, il voto del Sud è l’emblema in parte del voto di valore e quindi della scarsa capacità di emancipazione dell’elettorato di concepirsi come cittadini e non come sudditi e in parte ad una classe dirigente ormai datata, logora (il dato in Campania è significativo) incapace di esprimere idee nuove ma soprattutto di pensare al come applicare. Questo voto è sorprendente perché ci dice che a livello amministrativo il centro sinistra gode di un elevata fiducia o presunta tale nei propri dirigenti e amministratori (vedi le elezioni regionali e comunali) ma non è altrettanto vero nelle elezioni politiche. La questione che si pone è duplice: esiste una reale classe dirigente capace ma non dei leader che la rappresentino e che tramutino in azione le idee concepite da essa, oppure non esiste una classe dirigente propositiva ma si vota solo la persona al di là delle sue capacità? Sono due problemi diversi a cui bisogna dare una risposta se si vuole fare un discorso serio sulla competitività del nostro Paese. La Campania sarà il banco di prova con le prossime elezioni comunali visto che le contraddizioni sopra esposte sono emerse tutte in questi ultimi anni..
In quanto a Prodi, se devo essere sincero, dubito delle sue capacità di leadership ma confido nel suo metodo politico che ha espresso in campagna elettorale. La voglia di unire, di condividere le questioni cruciali prima di decidere mi sembra un buon metodo per ridare un’identità all’Italia e di conseguenza anche al Sud. Ripeto il futuro del Mezzogiorno, a mio avviso, è strettamente legato al sistema Italia. Una politica seria per il Sud vorrebbe dire affrontare i problemi del meridione in un’ottica di sistema Paese.
2. Condivido pienamente che la Cosa sia più importante del Nome della Cosa, che i contenuti siano più importanti dei contenitori, che occorre privilegiare le capacità piuttosto che le appartenenze. Su questo tema, però, sento l’esigenza di non separare nettamente il contenuto dal contenitore, perché in parte il primo è figlio del secondo.
Oggi la coalizione di centro sinistra presenta un’anomalia rappresentata dai DS, un partito laico e tradizionalmente di sinistra, che si trova a “fare i conti” con la Margherita un partito figlio della ex DC. La proposta paventata in queste campagna elettorale di costituire un unico partito democratico è stata cagionevole per i DS in termini di voti e ciò deve far riflettere su un eventuale transizione verso il centro. Dico questo perché costituire un unico partito di sinistra moderno con DS, Rifondazione Comunista, Partito Comunisti Italiani e magari anche i Verdi permetterebbe alla classe dirigente di questo ipotetico contenitore di esprimere contenuti di sinistra chiari e ben definiti. Altrettanto potrebbe fare, verso i propri elettori, la Margherita se fosse sciolta dal legame con i DS. A questo punto le due correnti potrebbero unire le rispettive idee, ovviamente con le dovute mediazioni, in un unico programma di centro-sinistra vero, chiaro e utile al Paese.
3. Un’ultima considerazione, su quanto uscito dalle urne poche ore fa, riguarda la governabilità del Paese. Da più parti sento allarmi e ricette strane ma secondo il mio modesto parere la situazione per quanto paradossale e assurda può ridare serenità al clima politico perché la maggioranza non potrà governare senza tener conto dell’opposizione com’è stato fatto dal governo precedente. Uno dei mali maggiori del “berlusconismo” è stato proprio governare per una parte del paese, per i propri amici ed elettori ma non per i cittadini italiani. Ora le due coalizioni sono chiamate ad assumere una forte responsabilità nei confronti del Paese vista la situazione attuale, spero solo che ne siano capaci evitando scene gia viste nella politica italiana (balletti, campagne acquisti, ritorsioni politiche ecc…).

lunedì, aprile 10, 2006

Maria Nica 1

Sono ancora molto confusa: una notte insonne e tanta passione, ora, alimentano il silenzio, questo sì di riflessione...
solo una considerazione a caldo: in una italia (con la lettera volutamente minuscola) dove lo spauracchio delle tasse e la brama di condoni determinano il consenso, si può solo ripartire dalla costruzione del senso civico in chi è cittadino mancato.

domenica, aprile 09, 2006

Vincenzo Moretti 1

Il leader è nudo?
Alcune riflessioni bollenti dopo una notte angosciante – esaltante nel corso di un mattino non ancora sereno in un paese sulla lama di un coltello.

1. Se anche in Senato l’Unione ha potuto conquistare, seppure per un soffio, la maggioranza, lo si deve non solo al voto degli italiani all’estero, ma anche al voto degli elettori del Sud.
Diversamente da quello del Centro, dove decenni di buon governo rappresentano, tra alti e bassi, un dato consolidato di riferimento, nel Sud si tratta di un esito niente affatto scontato, perché se è vero che Berlusconi si è particolarmente distinto per la propria incapacità (non volontà) di affrontare seriamente almeno alcuni dei problemi più importanti di questa parte del Paese, è altrettanto vero che da molto tempo la questione meridionale non c’è più. Dissolta più che risolta. Colpevolmente lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Le ragioni? Tante e naturalmente non tutte fuori dal Sud.
Ad esempio la classe dirigente meridionale non si pensa abbastanza in quanto tale e non dimostra una sufficiente capacità di innovazione sul terreno delle cose da fare e delle modalità con le quali farle, come vedremo anche più avanti; le donne e gli uomini del Sud fanno fatica ad assumere fino in fondo i doveri e i diritti della cittadinanza, finiscono troppo spesso col delegare, si comportano troppo spesso come sudditi invece che come cittadini.
Ciò detto, resta il fatto che le responsabilità delle classi dirigenti nazionali sono grandi.
Riuscirà il governo Prodi a ridare una dimensione politica alla questione meridionale e dunque a ridare un’identità al nostro Paese? Sta qui a nostro avviso uno snodo importante per il nostro futuro. Sicuramente più di un ulteriore dibattito su come si dovrà chiamare il nuovo contenitore partito del centro sinistra.
Da queste parti, continuiamo a ritenere che la Cosa sia più importante del Nome della Cosa. Che i contenuti siano più importanti dei contenitori. Che i programmi di governo e la coerenza con la quale si portano avanti siano, per tutti, il vero banco di prova.

2. Abruzzo 53.2; Basilicata 60.4; Calabria 56.8; Campania 49.6; Molise 50.5; Puglia 47.9; Sardegna 50.9; Sicilia 40.5: sono i dati relativi alle percentuali conseguite dall’Unione nelle regioni meridionali.
Spicca, in negativo, il dato della Campania, terz’ultima. (per ragioni diverse, i dati della Puglia e della Sicilia erano in fondo prevedibili: la particolare forza del blocco moderato e le note commistioni in Sicilia, il valore aggiunto portato da Vendola e l’alto tasso di astensionismo nelle recenti elezioni regionali in Puglia, ecc).
In Campania, neanche un anno dopo le elezioni regionali, va male nonostante Bassolino, De Mita, Mancino, ecc. Ci sarà un giudizio degli elettori sulla capacità e sulle modalità di governo a livello regionale? Sui criteri di formazione delle liste? Sui livelli di civiltà e di sicurezza delle nostre vite e delle nostre città? Ci sarà qualche riflessione da fare anche in riferimento alle prossime elezioni al comune di Napoli?

3. Abruzzo 18,4; Basilicata 19,9; Calabria 14,4; Campania 14,1; Puglia 15,6; Sardegna 17,2; Sicilia 11,4: questi sono invece i risultati conseguiti dai DS nel Sud (in Molise è stata presentata la lista dell’Ulivo anche alla Camera).
Qui l'urgenza di affrontare la questione Campania, dopo 15 anni di governo, appare ancora più evidente. Per quanto ci riguarda continuiamo a ritenere che molte mani e molte teste siano meglio di una. Che occorre privilegiare le capacità e le competenze piuttosto che le appartenenze. Che una classe dirigente sia meglio di un leader, per quanto autorevole possa essere.
Si può avviare finalmente una riflessione seria intorno a questo punto?