sabato, aprile 29, 2006

Sandra Macci 1

Caro Vincenzo,

10 anni dopo c’è ancora bisogno di idee, proposte ecc. Eppure mi viene voglia di chiederti/ci come è possibile che ci si lascia sempre prendere in contro piede? È possibile ti rispondo, basta smetterla con i mal di pancia, le logiche binarie egemonia - unità; solidarismo - massimalismo. È probabilmente utile un’iniezione di pensiero liberale.

Far agire la responsabilità, attraverso la realtà per quella che è e non per quella che si vorrebbe che fosse, ma soprattutto basta con gli stereotipi e i luoghi comuni sul mondo. C’è sempre qualcosa che non va, quando si è esclusi, c’è sempre qualcosa che va, se si è inclusi. C’è qualcosa che non funziona.

Per adesso ti trasmetto un “articolo?” (sic!) che ho inviato a dicembre al giornale NO STOP. Successivamente voglio discutere su “come le donne non prendono partito” e sul perché gli italiani sono dei geni e i (glocal) napoletani in particolare.

Ciao

Sandra


Ma … il femminismo italiano è scoppiato?
di Alessandra Macci

La questione del femminismo torna sulle pagine dei giornali.

A settembre, l’inchiesta di Simonetta Fiori “su come cambia il femminismo” ha rappresentato in modo più o meno particolareggiato e problematico il movimento femminista, tra lacerazioni, silenzi e derive clericali….
Voci di donne segnalavano comunque un mutamento dei princìpi fondamentali, sul versante della contraccezione, dell’aborto, della maternità, della vita.

Qualche giorno prima, il quotidiano “La Repubblica”, nello speciale “Diario”, aveva trattato l’altro corno della questione: la famiglia, i cambiamenti nei rapporti di potere nel nucleo familiare, i rapporti con la società e lo Stato, le polemiche sulle coppie di fatto.

Non si spegnerà rapidamente la riflessione sul femminismo, perché all’approfondimento giornalistico si affiancano il dibattito sull’astensione al referendum e sulla procreazione medicalmente assistita, la discussione su un saggio di Anna Bravo, “controverso” secondo alcuni, che affronta il rapporto fra le origini e il presente del femminismo, fra le protagoniste e le eredi della memoria, fra cattive ragazze di ieri e buone cittadine di oggi.
Sono questi i temi politici che il pensiero delle donne sta indagando e rivisitando attualizzando “la narrazione” che le donne hanno maturato.

Le donne contro il femminismo? Un paradosso, anzi una trappola, che le donne intervistate hanno tutte evitato, pur spingendo la riflessione molto in avanti: il rapporto tra femminismo e teologia; tra femminismo della parità e femminismo della differenza; tra famiglia e lavoro ecc.

E’ utile rileggere la Irigaray: “nessun naturalismo, affettività semplice o moralismo può stabilire l’unità familiare com’era. E la famiglia allargata, le diverse famiglie politiche o religiose non possono nemmeno sostituire quella cellula familiare dove la legge umana e la legge divina erano allo stesso tempo diverse tra l’uomo e la donna e riunite tramite il culto dei morti, come scrive Hegel”. Questo momento della storia è dietro di noi. E non c’è da rimpiangerlo. Né da pensare che con questo l’umanità stia svanendo. Una tappa del suo divenire è, speriamo, finita, un capitolo della storia patriarcale sta, me lo auguro, scomparendo quali che siano le regressioni o i sussulti che osserviamo. Andiamo avanti. Non ci sono accuse da rivolgere, né territori nebulosi da schiarire.”

Infatti, la “questione del femminismo” riguarda più le rappresentazioni e le interpretazioni che i fatti.

Ecco i fatti. Oggi il femminismo è ovunque: in relazioni significative tra donne e tra donne e uomini; in scritture magistrali di donne del passato e del presente; in rete, dove è possibile recuperare documenti, testi, biografie, la storia/le storie del movimento.

E’ necessario sgombrare il campo dalle interpretazioni: la politica delle donne c’è. Ed è più efficace di quanto si immagini.
C’è invece chi confonde le battaglie impostate dai radicali per il diritto all’aborto con il movimento femminista - che non aveva quella impostazione individualista; la cultura ufficiale – politica e giornalistica – stenta a capire che gli arricchimenti del pensiero femminista su molte questioni non necessitano di semplificazioni. Gli arricchimenti non appartengono a delle élite, il pensiero non è riserva di poche, essi sono proprio come si presentano.

Capisco e non mi meraviglio della superficialità dei media, che hanno divulgato il femminismo attraverso stereotipi, capisco meno la politica che, ad ogni scadenza elettorale e/o congressuale, riduce la questione del femminismo alla richiesta di parità. Sono cose diverse. Bisogna cominciare a chiamare le cose con il proprio nome. Ecco perché da anni, la questione del femminismo viene sbandierata: dai partiti, dai sindacati, dall’associazionismo che neanche provano a capire che è una questione di linguaggio, per dirlo con la Muraro “quello che le donne hanno da dire a questo tipo di civiltà e che bene o male hanno cominciato a dire, spinge fuori dai suoi quadri. Non si dimentichi che, se noi femministe abbiamo detto qualcosa di valido lo abbiamo potuto dire grazie ad un ascolto fine di noi stesse e delle altre”. Torna, insomma, ad agire il quadro dentro al quale dovremmo esprimerci altrimenti siamo contate-date per “mute”.

Fuori dal quadro restano le pratiche politiche che abbiamo inventato, insieme alla nostra consapevolezza che in questa materia la macchina politica degli schieramenti contrapposti è deleteria. Fuori dal quadro continua a restare la differenza femminile.

Invece, sulle pagine dei quotidiani, nelle chiacchiere politiche o nei corsivi delle/degli opinioniste/i, emerge lo stereotipo delle femministe, per l’appunto fuori moda; prive di parole; interessate solo al potere.

Finchè non ci si pone in relazione con queste esperienze, nella tematizzazione-teorizzazione della differenza dei sessi: noi siamo politicamente fuori. Ed è, come si sa, un’altra tappa dell’assimilazione, neutralizzazione della differenza.

La storia del femminismo è la storia delle sue pratiche, che sono molte e varie, ma due sono i tratti comuni a tutte: il partire da sé e la relazione, che disegnano una struttura del sapere, come dell’agire, aperta a sviluppi senza fine. L’altro, l’altra diventano, infatti, il termine di un rapporto in cui io stessa sono in gioco, io stessa cambio, e l’altro non è oggetto né di conoscenza, né di desiderio, ma un altro soggetto con cui scambio conoscenza, desiderio, progetti che circolano e si ricreano.

Se il femminismo non è collassato con i progetti rivoluzionari del secolo scorso (socialismo – comunismo), questo lo si deve alla forza delle sue pratiche politiche.

C’è stata una fase in cui l’enfasi sull’oppressione e la liberazione si nutriva della facile identificazione delle donne con gli oppressi. Era allora che una certa idea di politica lasciava credere che, facendo leva sulla doppia militanza, sul dentro-fuori, si potessero rovesciare i rapporti uomo-donna, partiti-movimento ecc.

Si aveva un’idea piuttosto unitaria della realtà. Ma è stata proprio l’esperienza politica nei gruppi femministi che mi/ci ha insegnato a prendere le distanze da quella realtà intellettuale per imparare insieme ad un altro linguaggio, anche un altro senso della politica.

C’è uno jato fra una cultura politica attardata sul paradigma emancipazionista tradizionale - solita litania per cui alle donne mancherebbe sempre qualcosa, o il potere o la parità col sesso al potere - e la narrazione delle esperienze femminili.

Nel senso comune, il femminismo viene inteso come affermazione d’identità femminile, contro gli uomini e/o per la parità con gli uomini. Fin dall’inizio, queste due modalità sono state in conflitto dentro il movimento delle donne. Ed è tuttora un campo conflittuale fra quelle che vogliono affermare il senso libero della differenza femminile e quelle che rivendicano le politiche di parità, fra quelle che sentono di essere coinvolte, implicate in un cambiamento profondo della realtà storica e quelle che vogliono semplicemente contare di più.

E’ evidente che il senso comune recepisce la versione che gli corrisponde di più, che è quella meno dirompente.

Questa divisione che passa nel femminismo corrisponde a un conflitto più largo che si gioca nella nostra società sulle soluzioni (ma potrà mai essercene una?) da dare alla crisi, al passaggio dal XX al XXI secolo.

C’è una tendenza a vedere l’immissione delle donne nello sviluppo, nella modernizzazione, nelle caserme, nella politica, come un apporto positivo per dare soluzione a questa crisi che ristagna su se stessa.

Le agenzie internazionali leggono così i dati sulla condizione femminile e il femminismo paritario va nella stessa direzione.

L’altra posizione, quella del femminismo della differenza, va oltre questo ovvio traguardo paritario, ha l’ambizione di inaugurare (ma di fatto l’ha già inaugurato) un altro tempo, dice che nel vecchio che cade a pezzi c’è già dell’altro e che questo femminismo è già quest’altra cosa.

Per essere chiara: non si sta parlando di un conflitto tra: uomini-donne, bensì di un conflitto donne-donne, donne-uomini, un campo in cui le donne compaiono due volte in un duplice dinamismo che riguarda i rapporti fra loro e con l’altro sesso. E che non è solo questione di donne o delle donne: ne va di un altro paradigma, di un altro senso dell’essere, per usare una terminologia filosofica che congeda tutti i termini con cui la crisi è stata finora pensata. Si tratta dell’essere due.

…..”E dato che non è nei poteri di nessuno buttare via certe parole, la parola femminismo non solo non va buttata via, ma va fatta vedere come campo di battaglia, un polemos fecondo che non si è ancora esaurito. Una parola nuova forse verrà, forse no. Per l’oggi la parola femminismo è ancora una parola densa, spessa, forse non soddisfacente, ma che tuttora mette in difficoltà e che perciò si tende a far fuori. Rinunciarci significherebbe ridurre, consegnare interamente il femminismo alle politiche di parità”.

No, questo polemos non solo non va abbandonato ma va mostrato, insegnato. Sì perché come tutte le esperienze umane il femminismo attraversa le sue pratiche, è esperienza umana fondamentale, va insegnata, si può insegnare.

Rileggere l’esperienza di un’altra, diversa dalla propria, offrire le chiavi di questa rilettura, significa far conoscere, non solo assorbire, un pensiero. Fare riaccadere il femminismo significa questo, farlo conoscere attraverso qualcosa che non è accaduto e che può accadere. Traghettarlo non con l’insegnamento accademico ma dentro una relazione viva, che incoraggi il protagonismo di chi ascolta.

Tra la troppa introversione del femminismo degli inizi, alla troppa estroversione del femminismo di oggi, c’è un cammino caratterizzato da infedeltà. Il pensiero moderno ci ha imposto come modello il rispetto del medesimo, dell’identico, dell’uno e dell’unico soggetto.

La differenza sessuale non è la semplice presa d’atto di una differenza fisica o tutt’al più culturale, ma è una differenza che corrisponde a una specifica articolazione tra corpo e parole.

…”Non è per caso che la donna privilegia la relazione con un altro soggetto, la relazione a due, la relazione nella differenza, la relazione orizzontale con l’altro, mentre l’uomo privilegia la relazione con l’oggetto, con l’uno e il molteplice, la relazione tra medesimi o fra simili, fra uomini, la relazione verticale e gerarchica”.

Prendere atto di ciò, avere coscienza della differenza può aiutare a vivere un’altra storia.

Nessuna indulgenza. Ma anche nessuna durezza o spietatezza. Anche perché è facile, come si dice, amare con furore, il difficile è odiare con tenerezza.


Alessandra Macci

1 commento:

Anonimo ha detto...

Se le donne preferiscono le relazioni "orizzontali" ed odiano le relazioni gerarchiche, allora perché hanno voluto fare il soldato?
I soldati sono soggetti alle gerarchie!