sabato, aprile 29, 2006

Vincenzo Moretti 2

Un uomo solo al comando?
Un uomo solo al comando. La sua maglia è bianco celeste. Il suo nome è Fausto Coppi.
La voce inconfondibile di Mario Ferretti annunciava in questo modo ai radioascoltatori di tutta Italia l’ennesima impresa del grande campione. Era un ciclismo d’altri tempi. Meno tecnologico. Più eroico. Con distacchi di decine di minuti e ordini di arrivo indipendenti dai controlli antidoping. Mentre nel mondo là fuori di politica si occupavano soprattutto i partiti.
I partiti producevano beni identitari, rappresentavano valori e ideali nei quali riconoscersi; definivano programmi e proponevano soluzioni che rispondevano innanzitutto alle necessità e alle aspettative dei ceti sociali di riferimento; selezionavano il personale di governo, dai comuni al Parlamento (le circoscrizioni da un versante e il Parlamento europeo dall’altro sono nate solo più avanti) e i funzionari che a diversi livelli rappresentavano il Paese nelle istituzioni internazionali.
Erano partiti guidati da grandi capi, quasi sempre autorevoli e altrettanto spesso autoritari, e da un gruppo dirigente ricco di personalità di primo piano e di norma assai rappresentativo.
Oggi i partiti si occupano essenzialmente, quando le circostanze e gli esiti elettorali lo consentono, di promuovere personale di governo; fanno assai più fatica a selezionare gruppi dirigenti data la scarsità di risorse ideali, programmatiche, economiche di cui solitamente possono disporre; hanno o aspirano ad avere però un capo, il leader, che si pensa, si propone, si rappresenta, si condanna a essere sempre più un uomo solo al comando.
C’è chi non fa fatica a sostenere che i destini della nazione dipendono da questi eroi più o meno solitari e chi se n’è convinto a tal punto da proporsi come il salvatore della Patria, l’Unto dal Signore.
Ma l’idea che la vicenda politica italiana possa sostanzialmente essere risolta dall’individuazione di un leader e dai rapporti tra leader attraversa, trovando autorevoli, affezionati, interessati supporter in tutti gli schieramenti.
A me non sembra una grande idea. Penso invece che il vento semplificatorio che soffia sulla politica finisce nel migliore dei casi per favorire una gigantesca opera di restyling del sistema in atto piuttosto che il processo di innovazione di cui il Paese ha bisogno; che al contrario tale processo deve coinvolgere uomini, regole, culture ed essere per questo profondo e consapevole; che occorre valorizzare la creatività e le differenze, rispondere alla gerarchia con la responsabilità, alla centralizzazione con la diffusione e il decentramento dei poteri.
Sta qui credo una questione davvero decisiva.
La mancanza di una classe dirigente, di un ceto intermedio forte, particolarmente acuta nel Mezzogiorno, ha infatti fortemente condizionato la storia del nostro Paese.
In un saggio su Napoli, il Sud, il federalismo, scritto assieme a Luca De Biase, veniva sottolineato come proprio a Napoli, per mano di Gaetano Filangieri, sia nata quella “Scienza della legislazione” destinata ad avere un peso decisivo nella formazione del pensiero e dei governi rivoluzionari in Francia e in Europa e che invece ben poca fortuna ha avuto in patria, dove ha prodotto quella rivoluzione del 1799 che, sono parole di Vincenzo Cuoco, “doveva formare la felicità di una nazione e intanto ha prodotto la sua ruina”.
Una rivoluzione fallita da un lato perché, come scrive ancora il grande storico napoletano, essa è stata per il popolo un dono e non un bisogno, e dall’altro perché anche allora, nonostante l’impegno di uomini come Genovesi, Pagano, lo stesso Filangieri, tra il “sopra” (il re, i nobili, l’alto clero) e il “sotto” (il popolo) c’era troppo poco “mezzo” (uomini di lettere, frati, preti, avvocati, giudici). E lo stesso Guido Dorso, sostenendo, circa un secolo e mezzo dopo, la necessità che si formassero cento uomini di ferro per dare finalmente soluzione ai problemi del Mezzogiorno d’Italia, non ha fatto altro che riproporre, da un diverso versante, la medesima questione.
Tutto questo riporta alla necessità di mettere l’accento sulla costruzione di quella società di mezzo (c’è un’assonanza perfino lessicale con l’ordine mezzano propugnato dal Genovesi), che continua a essere indispensabile per lo sviluppo economico e sociale delle diverse aree del Paese.
Certo, la costruzione di una nuova classe dirigente è un processo più impegnativo del ricorso alle capacità taumaturgiche del leader ma, come è noto, problemi complessi richiedono necessariamente soluzioni complesse.
In un sistema democratico, non c’è un Cesare al quale dare quel che è di Cesare, anche perché di suo Cesare non ha niente.
Da queste parti nessuna suggestione plebiscitaria, dunque, ma individuazione e selezione paziente dei futuri diversi che con le nostre azioni individuali e collettive contribuiamo a rendere più o meno possibili.
Continuiamo a pensare infatti che una classe dirigente valga più di un leader. E che in ogni caso per fare il leader siano necessari gruppi dirigenti autorevoli e diffusi con i quali confrontarsi e dialogare.

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